Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

La bella transitorietà del design

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Mi ha colpito e divertito l’effervescenza che per qualche giorno ha acceso Milano in ogni angolo per il Salone e il Fuori Salone. È bella l’estemporaneità ed è bello il fatto che tutto d’improvviso svanisce in un batter d’occhio. Il design per sua natura non è supponente. È un’espressione che per vocazione è transitoria, è legata ad un momento e incorpora in sé, senza nessun dramma, la consapevolezza che ad un certo punto si deve smontare e uscire di scena.  Il grande design è sempre ironico, anche quando diventa un classico e da qualcuno viene (disgraziatamente) rinchiuso in un museo. È ironico perché vive di continue mediazioni con i bisogni di chi lo usa oppure con gli innesti azzeccati o no di chi lo produce: oggi mi sono seduto su una Lc2 di Le Corbusier; oggi ho visto le bizzarre varianti di colori che Cassina propone 70 anni dopo della Lc2 di Le Corbusier.  (“Tout pas, tout lasse, tout se remplace”, recita un bel detto francese…).

In quattro giorni Milano si è riempita di queste idee leggere, che tante volte però si sviluppano da passioni profonde e da un lavoro pervicace. La sintesi più chiara l’ho travata in questa breve nota autobiografica di Alessandro Mendini, che dall’alto della sua storia e dei suoi 80 anni svela un’altra caratteristica del design: quello di essere sempre giovane.

«Io mi chiamo Mendini che deriva dalla parola “rammendini”, che designa un mestiere medievale – spiega con ironica pacatezza – anche in inglese to mend vuol dire “aggiustare le cose rotte”. È un termine perfetto per me: io lavoro sul lavoro degli altri, io metto a posto. Quando penso a un eventuale autoritratto, mi raffiguro con il vestito di Arlecchino, che è appunto un patchwork di vecchi vestiti altrui».

Infine, il design aiuta a scoprire punti di vista straordinari di Milano (città molto meno rodinaria di quanto siamo abituati a credere): guardate questa foto, con l’angolo del Cortile del Filarete  su cui s’innesta il cappello cubico della Velasca.  Un rapporto di forme imprevisto e strepitoso, con cinque secoli di gap (in primo piano l’installazione di Jacopo Foggini).

Written by giuseppefrangi

aprile 21, 2010 a 10:54 PM

Una Risposta

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  1. Uh, la Statale. 😀

    TOTILLAF

    aprile 22, 2010 at 5:01 PM


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