Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

Archive for gennaio 2009

Rossi d’azzurro

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Lorenzo, Fiorella e Tommaso mi segnalano la mostra dei disegni di Aldo Rossi alla facoltà di Architettura di Bovisa, via Durando (sino al 6 febbraio, ore 8-20, giorni feriali). Mi colpisce il titolo, così apparentemente fuori luogo per un architetto: L’azzurro del cielo. Ma è un titolo che richiama più che i progetti, i desideri. E la grandezza di Rossi consiste molto più di desideri che di progetti. Questo di lui commuove. È un inquieto che non s’accontenta di meno che dell’azzurro del cielo. La vedremo senz’altro.

aldorossi

Written by giuseppefrangi

gennaio 30, 2009 at 1:06 PM

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Canova, fu vera carne?

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Con una bella recensione alla mostra di Forlì su Avvenire (martedì 27)Maurizio Cecchetti tenta di riscattare Antonio Canova dal feroce e definitivo de profundis che Roberto Longhi gli affibiò nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana: «Lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove». Cecchetti tenta il recupero, accusando l’obbrobrio di un Canova «cucinato alla Winckelmann» con i restauri alla candeggina dei capolavori dell’Ermitage. All’opposto non c’è Canova senza le patine che stendeva sui suoi marmi per renderli vivi (sino all’aneddoto del rossetto steso sulle labbra di Ebe). «…nelle sue levigatissime sculture, mostrando il marmo una leggera vena, ecco che lui, disperato, la copre con le patine, perché la bellezza della carne gloriosa, la carne del paradiso deve essere più desiderabile della carne terrestre». La chiave di lettura è suggestiva e intellettualmente generosa. Ma a me resta una invincibile ritrosia davanti a Canova. Le mani non affondano mai nel marmo come se fosse carne. Tutt’al più danzano. Della carne scorgo solo un simulacro. Canova si tiene sempre fuori con un’abilità e un eclettismo invidiabili. Molto più vicino a Jeff Koons che a Bernini. E son certo che se avesse avuto a disposizione la plastica, non l’avrebbe di sicuro disdegnata.
Per dirla tutta, amo più il Canova mattatore culturale tra papi e imperatori che il Canova scultore (e poi non riesco a perdonargli l’idea tetra delle tombe a piramide in cui, tra l’altro, è finito anche il suo cuore…)

canova_grazie

Written by giuseppefrangi

gennaio 30, 2009 at 12:19 am

Cincischiare su Caravaggio

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05042008012Delusione per il documentario su Caravaggio di Massimo Magrì trasmesso dalla 7. Un progetto sconclusionato, con tanti ospiti che cincischiano, senza riuscire mai ad accostarsi ai perché di tanta grandezza. L’unico è Vittorio Storaro (nella foto), che riconosce a Caravaggio quel che intuì Longhi nel ’51: anticipa il cinema. I suoi quadri sono come un film, di cui lui controlla tutto, dalle luci, ovviamente, alla messa in scena, agli attori, ai costumi, alla scenografia. One man movie…

Molto più efficaci i grandi cartelloni che sono comparsi sulla metropolitana milanese, con la Cena in Emmaus di Brera, per lanciare la mostra. Caravaggio quasi si spiega da solo. È come un sasso che ti colpisce, sorprende, commuove. Incuriosisce e intenerisce. Ed essendo un pittore cinematografico, arriva diretto diretto agli occhi delle persone di oggi.

Written by giuseppefrangi

gennaio 27, 2009 at 10:16 am

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Una nota a pie’ di pagina

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Lo dice Charles Saatchi in un’intervista al Corriere a proposito dei pittori da lui lanciati in questi anni: alla fine, la maggior parte dei protagonisti della Young British Art, saranno tutt’al più una nota a pie’ di pagina nelle storie dell’arte del futuro. Onestà un po’ cinica del mercante e del pubblicitario. Che dopo aver creato delle mitologie, riporta tutti con i piedi per terra. Che la critica abbia da imparare?

(A proposito. Al Mambo di Bologna, un’ala è dedicata alla nuova arte italiana. Si fa un giro per vedere chi c’è e chi non c’è – e in genere quelli che devono esserci ci sono sempre tutti. Così t’accorgi che il museo si riduce a uno scontato appello. Ricordare, si ricorda oggettivamente poco, e in genere sono cose già viste in altri musei… Ma la giovane arte non è meglio che vada per le strade a misurarsi con la vita invece che accasarsi comodamente nelle sale di un museo? E se domani fossero solo una “nota a pie’ di pagina”?)

Written by giuseppefrangi

gennaio 25, 2009 at 11:32 PM

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Morandi all’ultimo fiato

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morandi_057bBellissima la mostra di Morandi al Mambo di Bologna, nonostante quel verdino rachitico steso sulle pareti, nonostante un’illuminazione (nelle prime sale) un po’ troppi intimistica, nonostante quella sede che è un mausoleo con l’ambizione o la fregola di essere luogo d’avanguardia. Nonostante tutto questo, la scelta delle opere è perfetta e il percorso della mostra ha pochissime sbavature: ed è quel che più conta. Ma conta soprattutto che Morandi esca da questa mostra (che viene dal Metropolitan di New York) come un gigante. Innanzitutto, dentro una biografia che è fatta di costanti e di assoluta sedentarietà, si scorge invece benissimo il processo di maturazione: si individua la meta. Dalle prime opere, quasi grondanti e rigogliose di pittura Morandi passa nel salutare bagno nella metafisica e, come disse sempre Longhi, alla meditazione sulla verticalità di Piero della Francesca. Morandi è un “principe costante”, e si riconosce questo suo lavorio nelle varianti di serie, dove si vede, ad esempio, come possa fermarsi (e ripetersi) per approfondire l’idea di un oggetto con la linea obliqua oppure i problemi di una composizione con un oggetto arretrato. Sono meditazioni serrate, lucide, intellettualmente alte: la mostra conferma come la tenuta mentale sia la carta vincente di Morandi. Per questo l’America non ha fatto fatica a capirne la grandezza. Stupefacente poi è il finale, con quel rarefarsi di tutto, con la pittura che cerca di essere appena un alito, che prende il rischio, estremo ma inseime dolcissimo, di posizionarsi sulla soglia del niente. E le ultime carte (nella foto) approdano, in miniatura (ma la piccolezza non è affatto una dimensione riduttiva dela grandezza…), sugli stessi terreni di Rothko.

P.S.: In mostra c’è anche il quadro con le conchiglie che Morandi donò a Francesco Arcangeli. Un capolavoro cupo, forse il più cupo che Morandi abbia mai dipinto (è degli anni della Guerra). Ma è un quadro che richiama una delle più combattute e drammatiche fratellanze tra artista e critico della nostra storia culturale. Riporto dal grande e disgraziatissimo libro di Arcangeli: «Questa non è soltanto scelta di pittura, è insieme una scelta, e insieme un destino inevitable di vita; combacianti, mi si perdoni un’autocitazione “entro la misura di un raggio visivo che è anche raggio della coscienza”».

Written by giuseppefrangi

gennaio 25, 2009 at 11:20 am

Se un architetto entra nella taverna di Emmaus

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londrabrera1A proposito delle due Cene in Emmaus di Caravaggio, esposte a confronto a Brera, ho ripescato un breve saggio scritto da un non addetto ai lavori, Luigi Moretti, nel 1951 sulla rivista Spazio. Moretti entra nei quadri di Caravaggio con l’occhio che gli pertiene, quello dell’architetto (è stato un grande architetto: guardate il meraviglioso palazzo-prua “incagliato” in Corso Italia a Milano). Quindi il primo fattore che lo calamita è quello dello spazio. Le differenze, tra le due Cene, anche da questo punto di osservazione si fanno sostanziali. La Cena di Londra (immagine a sinistra): lo spazio qui è condizionato «dall’addensamento allucinante di realtà in alcuni punti… Addensare la realtà vuole dire stringerne la potenza in aree possibilmente limitate e riassuntive. Ed ecco in Caravaggio comparire alcune figure di taglio, si ricordi la Cena di Emmaus di Londra, sulle quali la potenza evocativa trova appoggio e densità più veementemente che nelle figure frontali; in una spalla di taglio si nomina un’intera struttura umana, in breve spazio si concentra un mondo… perforando lo spazio nel senso dello sguardo e non più fermandolo con apposizioni frontali». Sulla Cena di Milano (a destra) invece  plana un’idea di spazio che segnerà tutto l’ultimo Caravaggio. Moretti la identifica così: entra in gioco «l’indipendenza, la casualità del perimetro del quadro rispetto all’ordine della figurazione contenuta. Ricordiamo al proposito, la notazione elegantissima del Longhi sulla forma del perimetro del quadro, che vorrei traslare in forme definita da un’equazione che lega il campo magnetico interno al perimetro con il campo del mondo esterno in cui è immerso». Dallo spazio serrato e convulso della Cena londinese, si passa allo spazio calmo e dilagante oltre la tela della Cena milanese. Intuizione davvero profonda.

Written by giuseppefrangi

gennaio 21, 2009 at 11:57 PM

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Che Prado!

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15 capolavori del Prado ad altissima definizione. Andate a vedere che spettacolo sul sito del museo. Qui sotto un assaggio (Raffaello e Dürer). Realizzate con la tecnologia di Google Earth.

raffaellodurer

Written by giuseppefrangi

gennaio 19, 2009 at 11:41 PM

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Le Corbusier, Matisse e la testimonianza del vero

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le-corbu2Nico, Riccardo, Cristina e Luca hanno portato da Vence un piccolo gioiello: è la lettera che Le Corbusier scrisse a Matisse nel 1953 dopo aver visitato la cappella di Vence. È una lettera piena di stupore e di gratitudine. Eccone una trascrizione (con qualche parola d’incerta interpretazione):

«Caro Matisse, sono andato a vedere la cappella di Vence. Tutto è gioia e limpidezza e giovinezza. I visitatori, per uno slancio sponetaneo, sono rapiti e affascinati. La vostra opera mi ha dato uno slancio di coraggio – non che me ne manchi – ma ho riempito le mie otri. Questa piccola cappella è una grande testimonianza: quella del vero.
Grazie a voi, una volta di più, la vita è bella. Grazie. A voi il mio ricordo più amichevole.
Le Corbusier».

Colpisce come le biografie di due giganti del 900 s’incrocino in questo luogo piccolo, nato quasi per una coincidenza fortuita («Questa cappella non sono io  che l’ho voluta, è venuta da altrove, de plus haut que moi»). Un luogo che non ha nessuna pretenziosità né culturale, né spirituale. Come dice sempre Matisse di questa cappella, è «un fiore»: «Un giorno sono entrato a Nôtre Dame e sono rimasto impressionato dalla folla, dai canti, dalla solennità. E mi sono detto: in confronto cos’è la mia cappella di Vence? È un fiore.Non è che un fiore. Ma è un fiore» (8 marzo 1952). Come un fiore, è nata da sola: «È curioso: ero guidato non guidavo io. Io non sono che un servitore». Sono meravigliose le riflessioni di Matisse sulla cappella (contenute in Ecrits et propos sur l’art, Hermann). Quando Picasso gli contesta la decisione di fare arte religiosa («Picasso era furioso che io facessi una chiesa»), non si scompone: «Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapete bene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Ha ragione Le Corbusier: la grandezza di Vence è nella sua piccolezza, nella sua semplicità e leggerezza. E fa pensare il fatto che un’intelligenza dall’ambizione colossale come quella di Le Corbusier, si chini sulla bellezza umile e architettonicamente anonima (uno stanzone con i muri squadrati) della cappella di Vence. È una spia del cuore, della tensione vera che lo muoveva.
Ultima riflessione: nel rapporto con l’arte, la chiesa di oggi si barcamena tra ripiegamento sugli stereotipi del passato, sudditanza verso le mode spiritualiste del presente e qualche tentativo di quadratura teologica. Invece deve far pensare come a Vence si sia messa in movimento un’altra dinamica: una grazia che ultimamamente apre soluzioni e esiti imprevisiti. Un fiore. Matisse: «C’è bisogno di un coraggio per l’artista, che deve vedere le cose come le vedesse per la prima volta: bisogna vedere ogni cosa per tutta la vita come quando si era bambini».

matmedal

Written by giuseppefrangi

gennaio 18, 2009 at 2:32 PM

Caravaggio, cena contro cena

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caravaggio-supper-at-emmausCon il volano mediatico di Caravaggio si cerca di rilanciare la vecchia e gloriosa Pinacoteca di Brera. È arrivata la Cena in Emmaus dalla National Gallery di Londra ed è stata messa al fianco di quella che dal 1939 fa parte dei tesori del museo milanese. Tra l’una e l’altra ci sono circa sei anni: la prima è stata dipinta a cavallo del cambio di secolo, l’altra (quella milanese) dovrebbe essere il primo quadro dipinto nel 1606 dopo la fuga da Roma per il delitto commesso. Anche l’impostazione della composizione è molto simile. Eppure i quadri sembrano lontani decenni uno dall’altro. La biografia di Caravaggio vive di accelerazioni violente, di strappi implacabili. Nella Cena di Londra siamo davanti a un Caravaggio olimpico, con un passo trionfale. Realista, ma anche teatrale. Con quell’effetto riflettore che alza la tensione sulla scena, e quel cesto in bilico in primo piano, che è una spericolata prova di bravura. È un quadro, che ha un che di clamoroso nel suo dna, che intercetta l’impeto e lo supore di quel momento, che sfonda il velo della normalità. Il discepolo a braccia spalancate è un capolavoro che sullo slancio fa sobbalzare il cuore anche dell’ignaro osservatore di oggi.

2006924172118678Sei anni dopo invece la stessa stanza si è ammutolita. Il punto di vista del pittore è un po’ più ribassato. Il muro è tutto nero. Ogni riflettore è stato spento. L’atmosfera ha la mestizia della normalità, il suo tono polveroso, immutabile nel tempo. Caravaggio si è lasciato alle spalle ogni baldanzosità giovanile e si inoltra nell’ultima cupa e drammatica fase della sua vita. Non è più il tempo degli entusiasmi: è un Caravaggio che non fa più sconti, che non cerca più scorciatoie, che non accende più la tenebra del reale ma sembra subirla. Persino la tavola si è immesirita, e le vivande sono all’essenziale. Quella stessa realtà che aveva incendiato di invenzioni nella galoppata dei suoi anni giovanili e della maturità, ora pesa come il piombo. È una coltre fatta di fatica, e di zone d’ombra impenetrabili. Il destino della storia dell’arte, lui, lo aveva cambiato: ora la partita è solo con se stesso e con il proprio destino. Caravaggio è entrato nella caverna da cui uscirà solo con la morte. Ma quant’è grande, e quanto è vero questo Caravaggio che si lascia alle spalle tutti gli effetti speciali!

Written by giuseppefrangi

gennaio 16, 2009 at 4:22 PM

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Michelangelo non ripete

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ITALY-ART-MICHELANGELO-CRUCIFIXÈ la ragione più che plausibile con cui un personaggio autorevole mi spiega perché il Crocifisso comperato dallo stato italiano ed esposto in questi giorni alla Camera non può essere di Michelangelo. Il Crocifisso resta bellissimo, il tempo è quello (ultimo scorcio di ‘400), ma la mano non è quella. L’idea di “ripetersi” è radicalmente estranea a Michelangelo. Non è tipo da tornare mai sui suoi passi: lo dice a chiare lettere il catalogo della sua opera. Ma lo dice ancor più chiaramente la sua tempestosa natura artistica. Michelangelo è uomo da idee uniche: nessuno lo è più di lui, neppure Leonardo che bissa la Vergine delle Rocce. È un incontentabile, che non conclude. Perché il concludere è un diminuire. E uno che non conclude come può ripetersi?

Post scriptum. Comunque è bellissimo. E mi richiama questo breve passaggio da Passio Laetitiae et Felicitatis, di Testori (è Felicita, davanti al Crocifisso in cui ha riconosciuto immedisimato il fratello morto): «Sarà stato che quella medesima lux o luse dava a quella carna statuaria la tenerezza d’una carna viventa o viva fin a pochissimi minuti prima…».

Written by giuseppefrangi

gennaio 14, 2009 at 12:23 am