Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

Archive for the ‘architettura’ Category

Indovina di chi è la Torre Velasca

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In un’intervista davvero insulsa pubblicata il 2 giugno dal Corriere a Zaha Hadid, in visita a Milano al cantiere Citylife, l’archistar dice di amare di Milano, la Torre Velasca di “Gio Ponti”. Ora, d’accordo che lo status di archistar legittima a dire qualsiasi cosa, ma un minimo di storia dell’architettura si può pur sempre esigerla. La Torre Velasca è firmata BBPR, dove la “P” sta per Peressutti e non certo per Ponti. E la cultura di BBPR è molto diversa da quella di Ponti: sono le due polarità di una straordinaria stagione della storia recente dell’architettura. Quindi la confusione, come l’ignoranza, è grande. Ed è grande anche nella redazione del Corriere, dove nelle pagine milanesi la considerazione della Hadid è stata ripresa pari pari, senza nemmeno fare una verifica su Wikipedia. E per colmo è stata anche enfatizzata da un sommario.

Written by giuseppefrangi

giugno 3, 2010 at 9:30 PM

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Gio Ponti come Ettore Spalletti

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Ieri un po’ per caso sono capitato a Milano davanti alla chiesa di San Luca costruita da Gio Ponti. È in una posizione molto defilata, zona via Porpora. Non è su una piazza, ha un lotto non grande in mezzo a condomini dai sei piani in su. Insomma una chiesa mangiata dalla città. Ponti ha dovuto lavorare con pochi mezzi e pochi spazi. Ha innalzato il piano della chiesa per fare stare sotto tutte le strutture di servizio, ha pensato una pianta elemenare a capanna che si annuncia nella facciata, di una semplicità straordinariamente accogliente: infatti è leggermente convessa e arretrata di pochi metri e protetta da una tettoia a capanna che scende a chiudere anche i lati. Devo dire che poche chiese del 900 mi ha subito comunicato l’idea di essere “semplicemente” chiesa, senza nessun sovraccarico di altri significati. Anche l’interno è semplice  (a parte il presbiterio rifatto e un po’ pasticciato, stile marmi levigati): con le fasce bianche e azzurre della grande parete absidale, su cui domina un semplice crocifisso in legno di olmo. Una cosa un po’ francescana e un po’ neo romanica senza passatismi (del romanico a fasce di Pisa). Ma quello che più sorprende è la grande volta della chiesa dipinta tutta di un azzurro intensissimo. Una volta color Madonna. Sembra un Ettore Spalletti ante litteram (qui trovate un po’ di foto).

Written by giuseppefrangi

gennaio 17, 2010 at 5:56 PM

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Mies Van der Rohe: persistere nell’umiltà

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Questo pensiero di Mies Van der Rohe l’ho trovato sull’ultimo numero di Casabella. Mi sembra ovviamente bellissimo. Riflessione a margine: gli architetti sono quelli che hanno sviluppato più pensiero nel secolo passato. Pensiero sano, intendo. Pensiero che fa i conti con la vita, i suoi bisogni, le sue attese. Queste di Mies ne sono una ennesima conferma (in quale altra arte nel secolo scorso è stata presa in considerazione la categoria dell’umiltà?)

La costruzione non definisce soltanto la forma, ma è la forma stessa. Dove la vera costruzione prova un contenuto autentico, là sorgono anche opere vere; opere vere e corrispondenti alla loro essenza. E queste sono necessarie. Esse sono necessarie in se stesse e in quanto parti di un ordine genuino. Si può ordinare soltanto ciò che è già in sé ordinato. L’ordine è qualcosa di più dell’organizzazione. L’organizzazione è la determinazione della funzione. L’ordine invece è attribuzione di significato. Se noi attribuissimo a ogni cosa ciò che essenzialmente le spetta, allora le cose rientrerebbero, quasi da sé, nell’ordine loro corrispondente e solo qui sarebbero pienamente ciò che esse sono. (…) Questo presuppone di abbandonare l’orginalità e di realizzare ciò che è necessario. (…) In altre parole: servire invece di dominare. Solo chi ha provato quanto sia difficile fare correttamente persino le cose semplici, sa riconoscere il peso di questo compito. Ciò significa persistere nell’umiltà, rinunciare all’effetto e compiere fedelmente il necessario e il giusto.

[Appunti per una conferenza, 1950 (?) da Mies Van der Rohe, Le architetture gli scritti, Skira 1996 pag. 313]

Written by giuseppefrangi

dicembre 22, 2009 at 11:01 PM

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Il portentoso Duomo di Milano

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gugliaAncora a parlare del Duomo di Milano. Lo spunto è la giornata di studi per riscoprire la storia della guglia maggiore del Duomo progettata dall’architetto Francesco Croce nel 1764. Un’opera grandiosa, se si tiene conto che da secoli il coronamento della cattedrale rappresentava un problema insoluto e che la scelta di collocare proprio sopra la cupola una torre di 600 tonnellate di marmo e 40 metri d’altezza rappresentava una decisione alquanto ardita. Un’opera che non piacque alla milano teresiana e illuminista, Pietro Verri la definì «ridicola e bestiale».Per fortuna alle bocciature non sono seguiti i fatti e oggi quella guglia è ancora su, a reggere la Madonnina.Alla giornata di studi c’era l’amico Luca Doninelli a cui dobbiamo intuizioni commosse e geniali. Eccone tre.

La prima. «Non esiste nulla a Milano che catalizzi gli sguardi di chi ci abita come questa guglia. Se potessimo contare gli sguardi che si posano su ciascun edificio, parte di edificio, monumento, opera o semplice oggetto della nostra città, su qualsiasi elemento del patrimonio cittadino, io credo che la Grande Guglia del Duomo supererebbe di parecchie lunghezze qualunque altra cosa.  Perché Milano è fatta così, Milano è fatta affinché i nostri occhi salgano verso quel punto. La sua struttura a raggi è fatta perché chi procede verso il centro di Milano guardi quel punto».

La seconda. «La caratteristica del Duomo non è di svettare, ma di tirare giù il cielo, di tirarlo in terra».  Lo aveva scritto Rebora «Il portentoso Duomo di Milano/ non svetta verso il cielo/ ma ferma questo in terra in armonia/ nel gotico bel di Lombardia».

La terza. È la riflessione finale. «Il Duomo è come una faccia, è come la faccia di un uomo che guarda il destino negli occhi, e non ha paura. Noi temiamo il suo sguardo, la grandezza che porta dentro di sé, la grandezza degli uomini che lo edificarono ci mette un po’ di soggezione. Ci sentiamo più piccoli, oppure liquidiamo la cosa con un po’ di scetticismo, pensando che quegli uomini, in fondo, erano dei visionari, o degli illusi. Ma in fondo sappiamo che non è così. Dobbiamo poter tornare a guardare bene in faccia il nostro Duomo, rinnovando quella incredibile forza progettuale nella quale Milano non ha avuto pari in tutta la storia. Dobbiamo renderci conto della città straordinaria in cui viviamo, della sua unicità, e dei compiti che – indigeni o no, italiani o no, credenti o no, di destra o di sinistra eccetera eccetera – l’essere milanesi comporta».

Written by giuseppefrangi

ottobre 29, 2009 at 8:49 PM

Il firmamento di Chartres

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Immagine 1

«Voici le firmament, le reste est procédure». Così Charles Péguy scrive nel suo poemetto dedicato alla cattedrale di Chartres. M’è venuto in mente quel verso imbattendomi in una prodigiosa pagina su internet. Si tratta di un sito costruito da un americano dell’Oregon, Holly Hayes, che ha documentato fotograficamente un notevolisimo numero di monumenti dell’arte sacra in giro per il  mondo. Sono immagini interessanti. Ma diventano anche affascinante in quelle pagine in cui l’autore le ha assemblate tutte, monumento per monumento, per costituire una visione d’assieme fatta di una grande molteplicità di sguardi. Mi aveva colpito l’assemblaggio delle immagini della chiesa di Saint-Hilaire le Grand, uno dei capolavori appena visitata a Poitiers: una chiesa schiacciata nel tessuto cittadino, con uno sviluppo absidale meraviglioso (quasi architettura danzante), che nel “tappeto“ fotografico salvaguarda tutta la varietà di soluzioni e di motivi che contiene.

Ma la vera meraviglia del sito di Holly Hayes la trovate arrivando sulla pagina delle vetrate di Chartres (cioè di una delle cose più belle che l’uomo abbia mai prodotto). 248 immagini prese dalla 170 vetrate, che tempestano con i loro blu, i loro rossi lo schermo del computer. Una specie di Gloria visivo anziché cantato. Vanno viste così, perché poi nel dettaglio si perdono. Ma viste così danno un tuffo al cuore, come quello che provò Péguy quando nel 1942 fece il suo pellegrinaggio votivo da Parigi a Chartes a piedi (92 km). E poi scrisse quel dolcissimo poemetto…

«C’est la pierre sans tache et la pierre sans faute, / La plus haute oraison qu’on ait jamais portée,/ La plus droite raison qu’on ait jamais jetée, /Et vers un ciel sans bord la ligne la plus haute».

Written by giuseppefrangi

agosto 20, 2009 at 6:21 PM

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Venezia, quando i leoni riposano

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San Marco si propaga come un’onda nel suo sestiere. Prima san Zaccaria, con la facciata che Codussi addolcisce a più non posso con linee curve, archi, archetti, bifore, colonnine, rosoni ciechi. S’intuisce che dal punto genetico di San Marco agli architetti resti addosso un’idiosincrasia per spigoli e linee a punta. All’interno, Codussi dà grande respiro alla struttura tardogotica, alzando arconi e impostando la volta: ma c’è sempre un senso di felice arbitrarietà nei rapporti e nelle proporzioni. Poi San Giovanni in Bragora (il testimone passa dal padre, Zaccaria, al figlio, il Battista…). La facciata è in cotto, ma anche qui i profili sono tutti addolciti e arrotondati: dentro si spalanca il grande Battesimo di Cima, terso sino a sfiorare una santa ingenuità. Poi c’è Santa Maria dei Miracoli: che vorrebbe avere l’energia del vero e proprio scrigno, incastonato nel tessuto urbano del sestiere. I muri esterni sono un susseguirsi ininterrotto di specchiature di marmo che vorrebbero richiamare un gusto fiorentino, ma franano nelle irregolarità e nelle continue eccezioni alle regole. All’interno (che sembra una scatolaliscioa di quelle fatte con il Lego)  gli archetti in alto se ne va per conto loro senza tenere in nessun conto le misure dei rettangoli di marmo delle pareti. Gli anni più o meno sono sempre gli stessi, ultimi del 400 e inizio 500: si vede che Venezia galleggia su trend volutamente defilati e gli architetti lasciano ai pittori il compito di affondare i colpi (Bellini lo fa con magistrale dolcezza: a San Zaccaria, la rotondità dell’abside dorata sullo sfondo si dilata in un respiro che Codussi purtroppo non conosce).

467387087_353f33fab6_bUn sussulto c’è a san Zanipolo, dove si prospetta la meravigliosa e fiabesca facciata della scuola grande di San Marco. Anche qui è un aggregato di elementi, un sovrapporsi e affastellarsi di idee che si sciolgono in una armonia a tratti bizzarra. Tra le idee c’è quella straordinaria dei due leoni che s’affacciano docili e sornioni in un sofisticato altorilievo, da un portale in trompe l’oeil, tutto incastonato di pietre. Il glorioso leone sembra in pausa. Resta il padrone di casa ma non ha nessuna voglia di graffiare. I due mettono fuori il muso per vedere che succede in piazza, come fanno i re nei giorni di riposo. Certo la trovata è strabiliante. Ed è strabiliante che sia lì a portata di mano… Ultima tappa san Giovanni Crisostomo, affondata tra la folla dei turisti. L’ultimo Codussi che accoglie l’ultimo Bellini (1513). Sono stanchi entrambi. Sull’altare principale si fa vivo il giovane Sebastiano del Piombo: uno che è già pronto a partire e a lasciare quel tran tran veneziano.

(morale: l’architettura a Venezia vive di sincretismi. Se da fuori non arrivano schegge di altri mondi e altre civiltà è come se venisse a mancare la linfa)

2. Fine

Written by giuseppefrangi

Maggio 6, 2009 at 7:21 PM

Venezia, un itinerario antirinascimentale

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2 maggio, giornata veneziana. Itinerario “antirinascimentale”: San Marco (in particolare gli esterni), Libreria Marciana, San Zaccaria, San Giorgio dei Greci, San Giovanni in Bragora, San Zanipolo, Scuola Grande di San Marco, Santa Maria dei Miracoli, San Giovanni Crisostomo, Ca’ d’Oro e Galleria Franchetti.

sanmarco-401Un abbozzo di pensieri. Se è vero che il Battistero di San Giovanni è il punto genetico di tutto la visione fiorentina del mondo (misura, proporzioni, prospettiva: la realtà tenuta sotto un prodigioso controllo intellettuale; grande energia sintetica), è altrettanto vero che San Marco è il punto genetico della visione veneziana (varietas, sincretismo, molteplicità di punti di vista, crescita per aggregazione). È un punto di vista genetico che spiega e tiene dentro tutta Venezia, perché nell’accumulo delle diversità lascia aperti anche spazi di libertà inediti nelle altre tradizioni italiane. Mi ha incuriosito uno sguardo ravvicinato con il lato destro della basilica, quello che confina con la Porta della Carta di Palazzo Ducale. Il muro di quell’ambiente a cubo che all’interno accoglie il Tesoro, ha un rivestimento a specchiature di marmo una diversa dall’altra, per misure, per epoche e per zone di provenienza. C’è assoluta libertà di inserzione di elementi diversi: trovi bassorilievi con motivi simbolici o decorativi innestati nel rivestimento murario. Sullo spigolo il porfido dei Tetrarchi (che dialogano con il gruppo scultoreo – altre quattro figure, più bambino – dello stupendo Giudizio di Salomone, sull’angolo del porticato di Palazzo Ducale. Meno di dieci metri, ma dieci secoli di differenza). Sul basamento del sedile s’inserisce la prima scritta in volgare veneziano che si conosca: “l’omo po far e dire in pensar e vega quelo che li po inchontrar”. Latino, greco, italiano e volgare, San Marco è un crocevia linguistico e architettonico. È un coacervo di elementi che fioriscono uno sull’altra, che convivono senza mai sopraffarsi a vicenda. Di fronte le due colonne quadrate con racemi provenienti da san Giovanni d’Acri. Sopra i capitelli non reggono niente, non hanno una funzione: però ci stanno.

Da questo si capisce l’idiosincrasia che Venezia ha per il Rinascimento. Lo argina per decenni. Poi nel 1527 arriva Jacopo Sansovino, uno dei tanti protagonisti della diaspora romana dopo il Sacco, e quindi anche Venezia è costretta ad aprire la partita. L’impatto è raccontato in quel meraviglioso libro che è Rinascimento a Venezia di Manfredo Tafuri. Si vede come la cultura lagunare medi e addomestichi le nuove visioni d’importazione. E c’impieghi poco a metabolizzarle. Quando la sfida si farà seria, con l’arrivo del Palladio, Venezia pensa bene di tenere ai margini (in senso urbanisitico) la spettacolare compattezza intellettuale dei nuovi manufatti: San Giorgio e il Redentore fanno spettacolo di sé sull’altra sponda… Scrive Tafuri: «Sansovino imparerà la difficile arte della mediazione, ma Palladio imporrà (o tenterà di imporre) i suoi microcosmi architettonici in una Venezia da essi letteralmente “interrotta”».

1. continua

Written by giuseppefrangi

Maggio 3, 2009 at 2:34 PM

Lacrime per Collemaggio

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L’inviato del Centro, il quotidiano di Pescara, è entrato nella basilica aquilana. Lo spettacolo è desolante. Un’enorme voragine si è aperta sopra il transetto. Il bianco patinato della navata è un ricordo perduto. Le reliquie di di Ceelstino V sono sotto le macerie. «“È un colpo mortale dal quale forse non ci riprenderemo più”, commenta sconsolato il rettore della basilica mentre toglie la polvere dai libretti illustrativi in tutte le lingue del mondo». Guardate questo video.

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Written by giuseppefrangi

aprile 9, 2009 at 11:47 am

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L’Aquila, omaggio (di immagini) a Collemaggio

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2118270785_47786dbe95_bIl terremoto ha colpito anche lei, la Basilica di Santa Maria al Colle maggiore di L’Aquila. Una facciata che è trapuntata di pietre, e forata da quei delicatissimi rosoni; un interno largo, fitto di luce. Parlano le immagini.

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Il terremoto ha colpito l’abside e fatto crollare parte della volta. La facciata è imbragata dai tubi per i restauri e sembra intatta. Così la Porta santa che si apre ogni anno a settembre, sulla fiancata sinistra della basilica. Su Il Manifesto di oggi 8 aprile c’è il racconto dell’inviato a L’Aquila, Roberto Tesi, salito a Collemaggio. Scrive: «La facciata non si vede: è coperta da ponteggi per un restauroo programmato da tempo. Ora ce ne sarà ancora più bisogno. Cerco di sbirciare tra i teloni ricordando la bella facciata rettangolare, con un bel rosone gotico. Mi sembra intatto…. Sul lato sinistro arrivo alla porta santa. Ovviamente è chiusa. Sembra intatta e si scorge l’immaginbe nitida di San Pietro Celestino che mostra la “bolla della perdonanza”. Chissà se quest’anno il 28 e 29 agosto si svolgerà la più celebre delle tante feste aquilane? Incontro un anziano sacerdote e mi spiega: «Non si può entrare: è crollato il transetto e c’è un buco enorme nel soffitto. Grazie a Dio la navata sembra aver resistito».

Santa Maria è un capolavoro di delicatezza, con il romanico, di sapore federiciano, che viene a sposarsi con l’intelaiatura già riunascimentale di quella indimenticabile facciata che spunta come un fiore osa dal prato che l’attornia.

Per saperne di più sulla situazione, clicca qui.

Written by giuseppefrangi

aprile 8, 2009 at 12:30 am

L’abside di Siza e la tenda di Mosé

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Visto che è domenica ritorno sulla questione del costruire chiese oggi. Il libro di Dianich propone un riferimento in effetti molto interessante: ed è la chiesa costruita da Alvaro Siza a Marco de Canavezes, vicino ad Oporto. La chiesa è dedicata a Santa Maria ed è stata costruita sul finire degli anni 90. Siza cerca di aggiornare un canone architettonico tradizionale, proponendo una facciata con due corpi laterali sporgenti che richiamano il motivo delle torri di tante cattedrali gotiche e, soprattutto, ritorna su un elemento dimenticato, come quello dell’abside, trasformando però la curva da concava in convessa. La semplicità del bianco degli intonaci e la linearità di tutto il perimetro in effetti dà una positiva idea di umiltà, di una fantasia messa all’opera ma trattenuta dalle soluzioni troppo soggettivistiche.

Ma c’è un però… Proprio settimana l’altra ad Arezzo mi è capitato di entrare nella meravigliosa chiesa romanica di Santa Maria della Pieve (nella foto sotto). La cosa che colpiva è la bellezza dello spazio; una bellezza pacificata ma insieme grandiosa date le dimensioni della chiesa (soprattutto l’altezza). E il tutto culminava in un’abside semplice e perfetta, fatta di nuda pietra, nella cui linea circolare così esatta, così accogliente  (per dirla tutta: così umana) sentivi una sorta di eco quasi di Paradiso. Quella curva dell’abside l’avvertivi come un abbraccio, ma un abbraccio largo, perché proposto a te come singolo ma anche come popolo. Insomma davanti a quell’abside ti accorgi istintivamente che non sei solo.: questo comunica l’architettura. Siza in paragone non ce la fa. La sua abside è perfetta ma un po’ escludente. Ti taglia fuori o ti concepisce come persona chiamata a un confronto individuale con l’eterno. È una struttura ultimamente muta, che si ritrae (per questo è convessa e non concava….)  invece che venirti incontro.

Questo sottilinea ancora una volta un motivo molto semplice che dovrebbe essere sempre ricordato da chi costruisce oggi. Nell’Esodo 33, quando Mosè costruisce fuori dall’accampamento una tenda per i suoi incontri con Dio, la chiama la “tenda del convegno”. Perché lì dentro non avveniva nulla di esoterico. Semplicemente in quel luogo scrive l’Esodo, «il Signore parlava faccia a faccia con Mosé, come uno parla al suo amico». Il suo amico: ecco il fondamento concettuale su cui un architetto dovrebbe fondare un’idea di Chiesa.

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Written by giuseppefrangi

marzo 22, 2009 at 12:06 PM