Archive for aprile 2009
Le spalle immense di Niccolò (e quella aguzze di Mazzoni)
Alla fine sono riuscito a vedere la mostra su Guido Mazzoni e Antonio Begarelli a Modena. Mi ritrovo nella mia idea: che Mazzoni sia soprattutto un fenomeno di straordinario eclettismo. Il senso popolare dei suoi compianti viene in seconda istanza: insomma poco a vedere con il Gaudenzio del Sacro Monte. Avendo visto la mostra posso essere più esaustivo nella mia ipotesi. Infatti in apertura ci troviamo di fronte l’“immenso” San Domenico di Niccolò dell’Arca, proveniente dal Museo della chiesa di san Domenico di Bologna. Una scultura di una presenza colossale, con una carica patetica che riempie da sola la grande sala. I grandi occhi che sprofondano nel breviario aperto, sono un condensato di umanità: c’è un senso di calma, c’è un senso quanto mai vasto della vita e dell’uomo.Vasto come quelle grandi mani che tengono il libro e che sembrano in grado di accogliere qualunque cosa. Difficile reggere il confronto con un simile capolavoro, in cui ogni piega della pelle non ricade mai su se stessa, ma rimanda a un’idea immensa della vita e della realtà. Difficile paragonarsi con una simile “magnanimità” poetica.
Al confonto Mazzoni sembra così calligrafico, impostato. Cerca effetti speciali, approdando a effetti da brividi (la lingua della Madalena che nell’urlo va a sbattere sul palato). Ma ultimamente prevale un sottile, implacabile senso ossessivo. Un voler andare dentro il dolore non per cercare partecipazione ma per trovare gridolini di meraviglia (o di orrore). Anche le sue straordinarie Marie chiuse nel guscio dei loro manti, un po’ alla borgognona, sembrano voler stare sole con se stesse, sigillate nelle loro smorfie. Non cercano condivisione. Non sollecitano una coralità, come invece succede nella meravigliosa cappella della Crocifissione di Varallo, dove Gaudenzio ha la forza di far sentire tutti popolo. Se Gaudenzio scolpisce a forza di carezze, Mazzoni invece agisce un bisturi, per andare dentro impietosamente nelle pieghe della pelle, per sagomare I denti. Evidentemente il soggiorno ferrarese aveva lasciato un segno profondo…
La critica d’arte e gli opposti isterismi
Sabato, alla presentazione del Testori a Novara (quasi 200 persone ad ascoltare…) Giovanni Agosti e Giovanni Romano hanno fatto un bell’esercizio di lettura del libro, senza nessuna retorica ma con un appassionato coinvolgimento intellettuale. Agosti lo ha sezionato segnatura per segnatura. Romano invece lo ha sorvolato con discese in picchiata, a sorpresa, su alcuni particolari solo in apparenza trascurabili. Ha riconosciuto alcuni personaggi nelle retrovie delle foto della mostra novarese su Cerano (1964): a pagina 130, dietro Marco Rosci «travestito da James Dean» c’è la testa bianca «di un altro protagonista della storia rievocata da questo libro, la testa bianca di Gian Alberto Dell’Acqua». Nella foto a pagina 139, invece, racconta sempre Romano «l’ultima che si vede è la mia insegnante di storia dell’arte al liceo, la professoressa Mocagatta». A guardare le foto quella stagione culturale sembra rivivivere. «Sembra di esserci», dice Romano.
Poi, da annotare, c’è la sintetica visione di una critica non fondamentalista, cui appartiene Testori, nonostante qualcuno lo abbia voluto tirare dalla parte di uno dei due “isterismi” («meravigliosa definizione»). «All’interno della disciplina della storia dell’arte di quegli anni c’era o una fondamentale sociologia brutale della storia dell’arte o in modo assolutamente opposto la tendenza verso una formalizzazione estrema… Due difficili Scilla e Cariddi: l’estremismo ideologico o l’estremismo formalistico». Invece, la storia dell’arte chiedeva di poter essere un’altra cosa, quell’esercizio di competenza e di aderenza alla realtà che poi è diventata. E Testori? «Si teneva aperta una via di fuga linguistica, che gli permetteva uno straordinario avvicinamento alle cose. Era un modellatore della parola a ridosso delle cose, qualche volta perfino facendo prevalere la sua abilissima folgorazione linguistica sull’oggetto». Ma era una via di fuga che riguardava solo uno come lui. Ultima battuta da segnare sui nostri taccuini. Romano confessa che alle mostre gli interessa origliare le spiegazioni di guide, quelle peggiori («le guide-cane»). «Perché così capisco quello che devo togliere dalla testa dei miei allievi».
Nella foto Giovanni Romano con Marco Rosci.
Qui tutta la sequenza delle foto della giornata a cura di Pietro Della Lucia.
Quella Madonna-origami della Certosa
Va bene, prendiamolo come regalo per il primo compleanno di questo blog, altrimenti mi sentirei un po’ in soggezione. Due amici professori che la stanno studiando, mi hanno “regalato” questa immagine di un capolavoro misterioso custodito nel Capitolo dei Fratelli della Certosa di Pavia. È la Madonna annunciata che costituisce la predella di una pala marmorea con una Pietà: un bassorilievo che per bellezza rischia di scompaginare tutte le classifiche compilate dal sottoscritto. Ha una fantasia imbizzarrita questo anonimo artista (il nome “di routine“ era quello dei Mantegazza), che si permette licenze sorprendenti. La Madonna sembra avvitarsi dentro la sua veste, come una sirena nelle sue squame (ma invece di nuotare potrebbe innalzarsi in volo); il vento che la scuote e la sospinge un bel po’ lontana dal leggio è un vento decisamente irriverente (del resto dall’altra parte non ci sta un angelo an nunciante, ma una tribù di angeli).
Lo spazio in cui si trova ha un che di prelottesco, con quei muri nudi che sembrano contenere un vuoto e nascondere angosce domestiche. I riferimenti colti, come i medaglioni classici sul basamento un po’ troppo imperioso del leggio, sembrano lì più che altro per assolvere ad un dovere. La sostanza è al contrario tutta volatile, fremente, con quella Madonna- origami che sembra accartocciarsi per poi distendersi ed aprirsi in tutta la sua bellezza svagata e adolescenziale. Una Lombardia non prevista, spigolosa e di umor acido, ma che non recede dalla sua tenerezza. Seguiremo con curiosità accanita cosa si scoprirà di questo capolavoro.
Pasqua con Piero e Baxandall
È uscita la traduzione dell’ultimo libro scritto da Michael Baxandall (l’edizione inglese è del 2003; l’autore è morto nell’agosto delo scroso anno). Il titolo è bellissimo: Parole per le immagini (sottotitolo: l’arte rinascimentale e la critica; Bollati Boringhieri l’editore) Dove quel “per” ha funzione umilmente strumentale. Non parole sulle immagini, ma parole a servizio delle immagini. Quindi non tanto con la pretesa di risolverne gli enigmi, quanto di approfondirne la complessità. L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla Resurrezione di Piero della Francesca, il capolavoro dipinto per il palazzo dei Conservatori di Borgo San Sepolcro, con un termine antequem del 1474 e una datazione probabile intorno alla metà del secolo.
L’approccio di Baxandall è condensato in queste quattro fantastiche righe in cui spiega perché il “gioco“ di cercare significati per ogni scelta operata dal pittore è un metodo sviante: «Il problema è che in questo modo, assegnando significati qua e là, un pezzo alla volta, mandiamo in cortocircuito la forza sistemica dell’immagine al cui interno gli elementi singolarmente descritti interagiscono. In questo modo ostacoliamo un possibile superevento pittorico capace di trascenderli». (il corsivo è mio)
Baxandall scava dentro quest’immagine che ha “prospettive disgiunte” tra quella delle guardie in basso e quella Cristo frontale. Coglie particolari carichi di potenza ma oggettivamente spiazzanti dal punto di vista percettivo (come la terza guardia da sinistra che sembra non avere le gambe). Anche Longhi aveva colto questo spiazzamento quando aveva parlato delle quattro guardie come «i quattro spicchi di un frutto»: immagine che rendeva bene la forza di coesine che lega il gruppo e dall’altro rimandava a un principio ordinatore altro. Sono tante le componenti dell’affresco che Baxandall va ad indagare, con il risultato non di risolvere ma di dilatare il senso di complessità di quest’opera.
Ma c’è un punto che riguarda proprio il cuore del dipinto (e quindi la festa della Pasqua). Baxandall coglie nel Cristo risorto «non prospettico che si rivolge a noi» una doppia matrice: «Possiamo vedere Cristo come eroe in posizione eretta o come un personaggio seduto… una delle ragioni per cui il riguardante era pronto a vedere il personaggio seduto, era l’esperienza pregressa di Cristo in Maestà… Si tratta di un’anagogia pittorica, un gioco di immagini da pittore invece che un gioco di parole da teologo». Un’opera come la Resurrezione è un concentrato di energia, in cui giocano un’impressionante pluralità di rapporti, per cui solo un individuo «dotato di eccezionali abilità organizzative» poteva tenere la regia. E lo spettatore è come se si preparasse a «danzare con un’agile sconosciuta», tra gli stimoli percettivi molteplici che sollecitano lo sguardo. e cercano scambi continui di energia visiva.
Lacrime per Collemaggio
L’inviato del Centro, il quotidiano di Pescara, è entrato nella basilica aquilana. Lo spettacolo è desolante. Un’enorme voragine si è aperta sopra il transetto. Il bianco patinato della navata è un ricordo perduto. Le reliquie di di Ceelstino V sono sotto le macerie. «“È un colpo mortale dal quale forse non ci riprenderemo più”, commenta sconsolato il rettore della basilica mentre toglie la polvere dai libretti illustrativi in tutte le lingue del mondo». Guardate questo video.
L’Aquila, omaggio (di immagini) a Collemaggio
Il terremoto ha colpito anche lei, la Basilica di Santa Maria al Colle maggiore di L’Aquila. Una facciata che è trapuntata di pietre, e forata da quei delicatissimi rosoni; un interno largo, fitto di luce. Parlano le immagini.
Il terremoto ha colpito l’abside e fatto crollare parte della volta. La facciata è imbragata dai tubi per i restauri e sembra intatta. Così la Porta santa che si apre ogni anno a settembre, sulla fiancata sinistra della basilica. Su Il Manifesto di oggi 8 aprile c’è il racconto dell’inviato a L’Aquila, Roberto Tesi, salito a Collemaggio. Scrive: «La facciata non si vede: è coperta da ponteggi per un restauroo programmato da tempo. Ora ce ne sarà ancora più bisogno. Cerco di sbirciare tra i teloni ricordando la bella facciata rettangolare, con un bel rosone gotico. Mi sembra intatto…. Sul lato sinistro arrivo alla porta santa. Ovviamente è chiusa. Sembra intatta e si scorge l’immaginbe nitida di San Pietro Celestino che mostra la “bolla della perdonanza”. Chissà se quest’anno il 28 e 29 agosto si svolgerà la più celebre delle tante feste aquilane? Incontro un anziano sacerdote e mi spiega: «Non si può entrare: è crollato il transetto e c’è un buco enorme nel soffitto. Grazie a Dio la navata sembra aver resistito».
Santa Maria è un capolavoro di delicatezza, con il romanico, di sapore federiciano, che viene a sposarsi con l’intelaiatura già riunascimentale di quella indimenticabile facciata che spunta come un fiore osa dal prato che l’attornia.
Per saperne di più sulla situazione, clicca qui.
Qualche pensiero indiscreto intorno a Pompeo Batoni
Ho visto (dal catalogo) la mostra di Pompeo Batoni in corso in queste settimane a Lucca. (Me) ne hanno parlato tutti molto bene. Anche il catalogo è bello e accessibile nel prezzo (Silvana, 35 euro). Non è evidentemente un “mio” pittore, ma mi ha suscitato qualche pensiero, spero, non banale. Impressiona in Batoni, un pittore che ha attraversato tutto il 700, la persistenza di una grande, a volte straordinaria, qualità pittorica. Impressiona la padronanza sulle tele di grandi dimensioni, la facilità nel transitare da soggetti sacri a quelli mitologici, dall’enfasi dei ritratti dell’aristocrazia e nobiltà europea all’umiltà dimessa di certi quadri devozionali (guardate che bello il San Giuseppe pensoso e “innamorato” del suo quasi figlio nel’immagine della tela dei Musei Capitolini). Insomma Batoni sembra sempre a suo agio, in qualsiasi casella lo si mettesse. Ma proprio questa flessibilità estrema è spia di un arretramento della condizione del pittore nel 700. È come se gli artisti avessero rinunciato ad avere un loro mondo e accettassero di plasmarsi sull’immaginario proprio di quel mondo circostante che li faceva lavorare (in questo sono emblematiche le lettere tra Batoni e il marchese Andrea Gerini, pubblicate in calce al catalogo: “Posso vantarmi d’avere un grande Protettore”). Ma questa suona un po’ come una resa intellettuale, un cedere le armi (o meglio il pensiero) ad altri. Non c’è più la capacità di essere nuovi, se non nelle modalità di apparire. Per questo il 700 è stato il secolo di Diderot e non di quelli come Batoni.
Il quale in realtà ha un merito, ben ricostruito nel catalogo da Jon Seidl: ha fissato l’iconografia del Sacro Cuore di Gesù, una devozione che sino a quel momento circolava in modo informale e non senza controversie nella chiesa. Batoni rompe gli indugi e fissa l’immagine nella sua accezione più fisica: nel 1767, su incarico dei Gesuiti, dipinge per la chiesa del Gesù un ovale su rame con Cristo che tiene in mano un cuore fiammeggiante. Lo dipinge su rame perché fosse facilmente trasportabile nel caso che polemiche o ostilità salissero di livello… Di immagini del Sacro Cuore ne sono poi circolate a milioni, sino all’altare in ceramica di Lucio Fontana a San Fedele a Milano. Forse era questo del Sacro Cuore il punto in cui avrebbe potuto innestarsi anche un pensiero nuovo, capace di sviluppare anche una soluzione formale nuova. Così, onestamente, non è stato. È rifluito in una commovente devozione popolare. Eppure… Eppure il cuore che Gesù porge non è il suo ma il nostro, rimesso a nuovo e reso fiammeggiante. Pensate che intuizione: c’è dentro l’idea della centralità dell’io, della preminenza della coscienza individuale, c’è l’incosncio come nesso con il destino, c’è l’idea di un impeto umano per rendere più buono il mondo…