Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

Archive for ottobre 2008

Fontana, dove meno te lo aspetti

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Due belle mostre intelligenti e insolite dedicate a Lucio Fontana. Una a Mendrisio, l’altra a Genova. In preparazione alla visita, ecco un pensiero su Fontana che non ti aspetti (specie riferendosi a chi lo ha avuto)

«Quando Jackson Pollock faceva colare il colore dal pennello, ci sembrava che il mondo così come lo conoscevamo fosse cambiato per sempre. Lo stesso vale per Fontana, le sue aggressioni e le sue profanazioni da un lato si possono considerare infantili atti distruttivi e dall’altro un inno alla vita, esplosioni cosmiche o danza insolite ma stupende. Con le sue traiettorie nello spazio e nel tempo, Fontana parla al bambino che è dentro di noi, ci ricorda che per quanto complicata sia la nostra vita, ci salva la bellezza che si trova dove meno ce lo aspettiamo, e questo è l’importante perché come diceva Brancusi “quando non si è più bambini si è già morti”».

Sarebbe da fare un quiz sull’autore. Ma è troppo difficile e quel riferimento a Pollock spiazza dal punto di vista generazionale. È niente meno che Damien Hirst, un artista da gossip che ha uno sguardo intelligente come pochi sull’arte. Leggete il suo Manuale per giovani artisti.

Written by giuseppefrangi

ottobre 29, 2008 at 9:14 PM

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Le pietre addormentate di Rauschenberg

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Così Robert Rauschenberg spiegava le sue Early Egyptians (1974; in mostra ora a Napoli, al Madre): «Cospargo le scatole di cartone di un materiale speciale come fosse colla. Poi le ricopro con due o tre strati di sabbia. Questo è così, quando pensi che siano scatole, ti sembrano pietre. Poi dopo aver pensato che sono pietre, torni alla prima impressione. Non sono pietre! Pensi di nuovo che siano scatole. Quest’ ambiguità è quello che mi piace. Poi ne dipingo il retro in modo che riflettano il colore sui muri. Come pietre che si sono addormentate dentro a un arcobaleno».

Written by giuseppefrangi

ottobre 29, 2008 at 1:08 am

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Seurat, senza indecisioni

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Ci sono 13 quadri di Seurat nella mostra milanese sul neo impressionismo. E sono un motivo più che sufficiente per non snobbare questa mostra che certamente, di per sé, lascia il tempo che trova. Mostra dalla scontata impostazione didattica un po’ a prova di asilo. Ma Seurat è Seurat, e solo per inerzia culturale si finisce sempre per metterlo nella truppa di questi pittori che stanno a distanza siderale da lui, Signac compreso. Seurat è di un’altra famiglia: lui vien giù da Piero della Francesca, per lui in pittura c’è nessuno spazio per la casualità. È tensione verso un’esattezza senza concessioni. Certamente è impregnato sino al midollo di luce impressionista, ma è come se l’avesse sottratta da una parte al tempo, dall’altra alla meteorologia. Così trasforma, o meglio trasfigura, l’impressionismo in un fatto zenitale. La luce, còlta d’après nature viene riportata alla sua radice. Diventa veicolo di un qualcosa che ha a che fare con l’assoluto.
Il metodo scientifico nella stesura dei colori su cui si indaga sino alla nausea è la via con cui Seurat si sottrae al felice soggettivismo dei suoi fratelli maggiori impressionisti. Lui cerca un’oggettività che gli faccia fare il balzo aldilà di tutto ciò che è transitorio.
L’inarcamento della schiena dei contadini nei due bozzetti in apertura di mostra, vien giù dall’inarcamento dell’astante che si toglie il camice nel battesimo di Piero. È postura che in qualche modo riposta a un senso dell’eterno. Così la sabbia bianca della spiaggia di Honfleur (1886), dipinta a piccoli tocchi luminosi e pastosi, ha la solidità abbagliante di un territorio immutabile.

Quando Seurat tira una linea o alza un palo (vedi Il Canale d Gravelines: di sera, 1890), è difficile immaginare che quella linea o quel palo potessero avere un tracciato diverso. Seurat è sempre di un’esattezza che non lascia spazio a varianti. C’è talmente tanta concentrazione mentale nei suoi quadri, da chiudere ogni spazio all’indecisione.

(Per questi motivi, e per tanti altri che sarebbero da aggiungere, La Baignade à Asniére (1883) è tra i grandi quadri dell’Ottocento, forse forse il più grande: c’è la vocazione all’assoluto di Seurat accompagnato da una grazia che non lo avrebbe mai toccato in modo tanto abbondante…)

Written by giuseppefrangi

ottobre 28, 2008 at 1:15 am

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Chi ha messo Schifano in parcheggio?

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È perfetta e rapinosa la definizione che Testori trovò alle due grandi tele di Schifano presenti alla mostra milanese del 1982: «aquiloni». C’è una sola cosa che non torna. Se un quadro intitolato Ballerini è allineato con quella metafora, l’altro intitolato Parcheggio invece sembra essere del tutto scentrato. Strano titolo, per biciclette che tutto appaiono meno che parcheggiate. Corrono, fremono, scappano, volano, appunto. Sono biciclette felici, a briglie sciolte. Dei titoli sappiamo questo: «Io non ho ispirazioni. È vero per molti quadri sono rimasto sorpreso io stesso mentre li facevo. Di solito i quadri che faccio li ho sempre con esattezza in testa… Prima dei quadri ho in testa i titoli». Questa tela arrivò così filante da non lasciare neanche il tempo al titolo di fissarsi nella testa. Tant’è vero che quando nel 1982 venne esposto il quadro era “senza titolo”. Così è nella didascalia dell’articolo del Corriere. Così nelle apparizioni successive (esempio Conegliano, 1997). Nella mostra milanese invece appare stranamente questo cartellino che sembra riferirsi ad un’altra opera. O forse ad un altro autore, perché se c’è una categoria mentalmente estranea a Schifano è proprio quella di parcheggio, di stasi. Un titolo “frenato”. Eppure anche la didascalia catalogo Electa conferma, anche se nel saggio introduttivo Arturo Quintavalle cita il quadro come «Biciclette», ma senza usare il corsivo come per indicare il soggetto e non il titolo. Neppure il proprietario Antonio Colombo sa dare una spiegazione del cambio di titolo. Chi scioglierà il mistero?

Written by giuseppefrangi

ottobre 25, 2008 at 12:18 am

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Milano mondo

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Una settimana fa ero entrato nello spazio della Fabbrica del Vapore dove era allestita una mostra sugli ultimi adepti a Italian Factory. Una mostra un po’ tronfia, dove la pittura veniva ridotta a somma di pasticci. Una settimana dopo, in quello stesso spazio, si vede una mostra, molto più povera negli apparati, ma quanto più intensa nella sostanza. La chimica delle mostre ha questo di bello: produce effetti che sono assai lontani dalla semplice somma degli elementi. Per essere sintetici: in questo caso ci sono cinque ragazzi, tutti di provenienza mediorientale, arrivati a Milano per studiare a Brera, radunati da Marina Mojana. La “chimica” che li ha messi insieme poteva anche dare esiti esplosivi, visto che due sono israeliane, due sono iraniane e uno è egiziano musulmano praticante. Invece i loro sguardi, così diversi, si sono combinati in un effetto che desta stupore per il coesistere vitale di tante differenze, poetiche assai più che etniche o geografiche. Lo spazio nudo e spogliato da tutti gli apparati è riempito dall’energia tutta contemporanea e tutta positiva che le opera in mostra scatenano, proprio per le loro differenze. Non si possono giudicare i valori singoli in campo (anche se le foto di Mido mi sembra abbiano una forza che lascia presagire grandi sviluppi). Ma l’insieme ha l’effetto di un’installazione riuscita. E che come tutte le installazioni trasmette la magia delle cose che oggi ci sono e domani si dissolvono. Se vi capita non perdete Glocal art.
Nella foto, da sinistra, Mido (egiziano), Hilla Ram (israeliana), Golsa Golchini (iraniana), Azadeh Safdari (iraniana), Iamit Segal (israeliana).

La mostra è organizzata da Vita non profit. Info sul sito.

Written by giuseppefrangi

ottobre 24, 2008 at 7:17 PM

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La sperdutezza di Schifano

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«Così dai teleri di Schifano che l’ansia verso un impossibile paradiso della felicità (e dell’innocenza) fa parer simili a grandi aquiloni che nessuna stanchezza e nessuna tempesta riescono ad abbattere, ancorché vi si leggano, qua e là, strappi e ferite…
… Ma perché tacere che Schifano con queste sue opere, sembra aver superato e con un solo balzo il “bric e brac” psico-letteral-pittorico della transavanguardia, lasciandolo a tanti chilometri di distanza da farlo sembrare vecchio e, quel che è peggio, assolutamente inservibile anche quale semplice provocazione?».

Così Giovanni Testori, sul Corriere del 7 novembre 1982. Alla Rotonda della Besana, nella mostra “Giovani pittori e scultori italiani”, Schifano esponeva, invitato da Achille Bonito Oliva, due grandi tele che oggi vengono riproposte nell’esposizione del decennale dalla morte, che dopo essere stata Roma è approdata a Milano (Parcheggio, 1982; e Ballerini, 1982)
Il volto di Testori riaffiora, per tre volte, nel montaggio di 540 fotografie tutte catturate dalla tv, proveniente dalla collezione Massimo D’Alessandro (1993). Sono le uniche immagini che Schifano, lascia praticamente intatte, prese dall’intervista fatta poco prima della morte dello scrittore da Riccardo Bonacina. Un volto scavato, drammatico, con gli occhi sbarrati, come su un abisso, o forse gravati da un immenso senso di carità.
Cosa collega quegli occhi alle tele leggere come “aquiloni”? Bisogna scavare intorno a questo interrogativo per non cedere a letture ovvie e banali su Schifano. È un invito a sorprendere quel punto di buio, di pianto, di ansia che fa di Schifano un pittore molto più profondo e grande di quanto una vulgata un po’ ciabattona e semplicistica vuol farci credere. Per Schifano andrebbe bene un quasi-neologismo di Testori: sperdutezza. Che è la vita come somma di immensa delizia e di irriducibile malinconia.

Detto questo, è purtroppo doveroso sottolineare la mestizia dell’allestimento della mostra milanese, con quella sala di bellissimi video che sembra quella d’attesa di un dentista.

Peccato. Perché la scelta delle opere è di quelle che lasciano una scia indelebile nel cuore.

Written by giuseppefrangi

ottobre 21, 2008 at 11:35 PM

Mantegna strepitoso

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La prima immagine di Mantegna che s’incontra arrivando a Parigi sono gli immensi cartelloni pubblicitari della mostra nel metro. Il Cristo dell’Orazione nell’orto, scelto come manifesto, s’arrampica su per i soffitti a volta delle banchine, e conferma subito che Mantegna è uno scapestrato in grado di tener testa al bombardamento pubblicitario e mediatico che lo circonda. È un primo sguardo non casuale: Mantegna ha l’energia, l’occhio elettrico di un contemporaneo, anche se la mostra che lo riguarda è ospitata nel museo dei musei, il Louvre. È un classico intemperante.
Una mostra strepitosa, senza una battuta a vuoto, densa di storie, di idee, di colpi di scena. Esatta nel percorso filologico, ma ugualmente piena di sussulti: ad ogni passaggio lascia intravvedere nuove ipotesi di lavoro (a cura di Dominique Thiebaud e Giovanni Agosti, sino al 5 gennaio. Fate un giro sul bellissimo sito allestito).
A simbolo della mostra è  stata presa l’Orazione dell’orto, predella del polittico di san Zeno, “rubata” da Napoleone e ora conservata a Tours. Uno degli apostoli dorme, sulla pietra, un sonno di pietra. Scxhiantato dal sonno, si potrebbe dire senza tema di mentite. Sdraiato supino, con il mantello che ha perso i colori, si mimetizza come fosse una lucertola, allungata in uno scorcio quasi irridente. C’è un che di sfrontato in questo suo dormire, che non è frutto di spossatezza, ma di una beata incoscienza giovanile.
È un mondo senza ambiguità quello di Mantegna, intagliato con la nettezza di un cristallo. È un mondo ricostruito al netto di sentimenti e della psicologia. La realtà sfreccia, come una scheggia che non lascia il tempo a doppi pensieri. Mantegna tanto è archeologico nell’apparenza, quanto è invece futuribile nella sostanza. È pietroso  e robotico insieme. Tanto è infinitesimale nei dettagli, quanto è centrifugato nell’effetto complessivo. Tanto è cristallizzato nell’istante, quanto è esplosivo per l’energia che trattiene.

Per tutte queste ragioni più che belliniano io  mi sento sinceramente del partito di Mantegna.
(mostra vista sabato 11 ottobre, con la guida cortese ed esperta di Arturo Galansino)
(1. continua)

Written by giuseppefrangi

ottobre 17, 2008 at 1:11 PM

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Appuntamento con Daniele

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Sabato 18/10, ore 15, visita guidata da Cristina Terzaghi alla Certosa di Garegnano e agli affreschi di Daniele Crespi con le storie di San Bruno (e quelli di Simone Peterzano). Un’occasione da non perdere per la bellezza intatta degli affreschi e per la qualità di chi guida la visita. Sul sito dell’Associazione Testori, tutti i particolari per iscriversi.

Personalmente ho un legame quasi di sangue con questi affreschi di Daniele, essendo che sono stati l’argomento della tesi di mia mamma Lucia. Una vocazione artistica potentemente sostenuta dal grande fratello Gianni, ma poi arenatasi negli impegni famigliari… Ma il legame resta, e quel tono cronachistico e tutto in prosa di Daniele lo sento un po’ mio.

Naturalmente Gianni (Testori) su Daniele ha invece continuato a indagare. E le sue righe sono un magistrale viatico: «Da quel romanziere che tentò d’essere egli snodò i gorghi in cronaca, li spianò fino a svuotarli della loro stessa seduzione; indicò agli spettatori i piani effettivi delle vicende; enucleò le misure sociali, anziché i rapimenti mistici e spettrali delle vite dei Santi e di Cristo medesimo; rimeditò i martirii come fatti di costume; cercò di legare ogni fatto, anche i più truci, a ragioni precise e precisabili. Ma, a parte che una talquale remora languida gli rimase addosso sempre, il suo limite fu di restar legato, in quell’operazione, a una parte sola, quella della Controriforma: uno Stendhal senza la necessaria obiettività e il necessario cinismo; uno Stendhal, insomma, sconfitto. Questo è quanto si desume dalla sua opera in proposito più chiara, che è poi anche il suo capolavoro: il ciclo certosino di Garegnano, dipinto tra l’altro alla vigilia della morte (1629)».

(Come nota Davide Dall’Ombra nella sua tesi di laurea, la stessa prosa si Testori finisce con il “planare” sullo stile di Daniele: «Testori sembra adattare il suo linguaggio critico a quello che ritiene essere il temperamento del pittore: se con il Procaccini s’era fatto setoso, con Daniele si fa storico, dettagliando i rapporti di influenza sulla Spagna degli altri manieristi e i debiti del Crespi verso Zurbaràn e la pittura genovese così come Daniele fu pittore attento ai meccanismi della storia ma con tutti i limiti di un pittor cronista»).

Nella foto, la scena maestra del ciclo di Daniele, il  Risveglio dai morti di Raimondo Diocrès.

Written by giuseppefrangi

ottobre 15, 2008 at 1:44 PM

Nolde, Rouault e Cristo

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Bella la doppia pagina di Alias, l’inserto del sabato del Manifesto, con le recensioni alle due mostre parigine di Emile Nolde e di Georges Rouault. Due artisti paralleli, morto l’uno nel 1957 l’altro un anno dopo. Trait d’union (sottolineato anche dalla scelta dell’immagine di Nolde messa in pagina; Rouault dal canto suo fa subito effetto “Chartres” con qualsiasi soggetto), è una propensione molto più esplicita e costante in Rouault, all’arte sacra. Nolde dipinse un ciclo famoso negli anni 10, oggi presentato nella sua completezza in un’intera sala alla rassegna parigina. Come sottolinea giustamente Federico De Melis, «nella sua brutale immediatezza quello di Nolde si qualifica come un cristianesimo non solo troppo luterano, ma frammischiato, diremmo, a qualche veleno di paganesimo nordico». «Un modo tutto soggettivistico e fantastico di vivere la sfera religiosa» che indusse Romano Guardini a escludere che l’espressionismo di Nolde «così sganciato dall’oggettività, storica ma anche scritturale, della verità rivelata possa in qualche modo rivelarla».

Opposto invece il film di Rouault, cui, come spiega invece Roberto Andreotti, Parigi ha reso un quasi imbarazzato omaggio. La mostra al Beaubourg, appena chiusa, era nascosta e poco pubblicizzata, mentre ora ne è aperta un’altra in una sede più defilata, la Pinacothèque de Paris. Scrive Andreotti: «Una figurazione come la sua, che sfida la permanenza del Sacro proprio sul ring della crisi novecentesca – indicare una “salvezza per l’uomo moderno” avrebbe detto Charles Moeller – non è solo un “esercizio spirituale privato”, ma s’impone dialetticamente come una drammatica ricerca della Rappresentazione». Ed è bello anche il riferimento all’omelia pronunciata al funerale di Rouault dall’abate Maurice Morel. Riferendosi alle vetrate di Chartres, disse: «Egli ne possedeva la giovialità e la gravità, ma insieme anche il pudore e la franchezza, in una parola la fede».

Quella di Rouault è stata forse l’ultima esperienza in cui la rappresentazione del sacro è riuscita ad approdare, con strazio e fatica, alla figurazione. Dopo di che è subentrata una sorta di assordante afonia. Bacon escluso, ma quella è tutta un’altra storia (nel senso che Bacon non ha mai pensato di appendere un suo quadro in una chiesa).


Written by giuseppefrangi

ottobre 14, 2008 at 3:03 PM

Picassò, Picassò

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Al Grand Palais di Parigi, ore di coda per entrare nella mega mostra Picasso et les maîtres. È una mega mostra inutile, fatta solo per saziare l’ambizione transalpina, la mai sopita voluttà per la propria grandeur. Ecco quindi Picassò messo a paragone con i giganti della pittura che in qualche modo gli sono caduti sotto gli occhi: l’obiettivo è di dimostrare che lui è sullo stesso livello. Cosa probabile, ma che converrebbe dimostrare per ben altre vie.
Picasso si accosta ai classici con la stessa voracità e la stessa inerzia culturale con cui può accostarsi al corpo di una donna o alla brocca d’acqua di una natura morta. Ma questa che è una qualità della sua grandezza diventa un limite nel momento in cui si confronta con i giganti, che invece del “pensare” hanno fatto spesso un architrave del proprio agire pittorico. Prendete la parete della sala finale: in trenta metri sfilano la Venere del Prado di Tiziano, la Maya Desnuda di Goya, L’Olympia di Manet, l’Odalisca di Ingres. In mezzo i divertimenti dell’ultimo Picasso. Gigantesse che sembrano dipinte da un bambinone cui sia stata donata l’energia di un gigante. Ma bambinone resta. E il confronto finisce con l’essere oggettivamente imbarazzante.
Picasso macina i maestri come macina tutta la realtà che lo circonda: ma nel confronto con i maestri il rischio si fa più alto e il gioco ha il fiato corto. Così è nella sezione delle nature morte, dove soccombe vicino alla magia pre morandiana di Zurbaran, e dove s’incarta davanti alla profondità misteriosa dei teschi di Cézanne. Insomma, l’elementarità che è una forza di Picasso, in questa mostra venga ribaltata clamorosamente in debolezza.

Tre postille. Primo: non mancano i capolavori. Il più capolavoro è il ritratto di Olga del 1923. Uno schianto di eleganza, forza, con un filo di malinconia, nello sguardo rivolto altrove.
Secondo: nel rapporto con il passato, manca il più importante, quello che la pittura romanica catalana. È lì che Picasso succhia la linfa della sua pittura senza ombre e tutta certezze. È quello il terreno saldo su cui poggia i suoi piedi e prende la sua andatura colossali.
Terzo: Domanda maliziosa. Se Picasso avesse avuto il coraggio di distruggere qualche suo quadro, non sarebbe stata cosa salutare?

Written by giuseppefrangi

ottobre 13, 2008 at 11:46 am

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