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Morandi all’ultimo fiato
Bellissima la mostra di Morandi al Mambo di Bologna, nonostante quel verdino rachitico steso sulle pareti, nonostante un’illuminazione (nelle prime sale) un po’ troppi intimistica, nonostante quella sede che è un mausoleo con l’ambizione o la fregola di essere luogo d’avanguardia. Nonostante tutto questo, la scelta delle opere è perfetta e il percorso della mostra ha pochissime sbavature: ed è quel che più conta. Ma conta soprattutto che Morandi esca da questa mostra (che viene dal Metropolitan di New York) come un gigante. Innanzitutto, dentro una biografia che è fatta di costanti e di assoluta sedentarietà, si scorge invece benissimo il processo di maturazione: si individua la meta. Dalle prime opere, quasi grondanti e rigogliose di pittura Morandi passa nel salutare bagno nella metafisica e, come disse sempre Longhi, alla meditazione sulla verticalità di Piero della Francesca. Morandi è un “principe costante”, e si riconosce questo suo lavorio nelle varianti di serie, dove si vede, ad esempio, come possa fermarsi (e ripetersi) per approfondire l’idea di un oggetto con la linea obliqua oppure i problemi di una composizione con un oggetto arretrato. Sono meditazioni serrate, lucide, intellettualmente alte: la mostra conferma come la tenuta mentale sia la carta vincente di Morandi. Per questo l’America non ha fatto fatica a capirne la grandezza. Stupefacente poi è il finale, con quel rarefarsi di tutto, con la pittura che cerca di essere appena un alito, che prende il rischio, estremo ma inseime dolcissimo, di posizionarsi sulla soglia del niente. E le ultime carte (nella foto) approdano, in miniatura (ma la piccolezza non è affatto una dimensione riduttiva dela grandezza…), sugli stessi terreni di Rothko.
P.S.: In mostra c’è anche il quadro con le conchiglie che Morandi donò a Francesco Arcangeli. Un capolavoro cupo, forse il più cupo che Morandi abbia mai dipinto (è degli anni della Guerra). Ma è un quadro che richiama una delle più combattute e drammatiche fratellanze tra artista e critico della nostra storia culturale. Riporto dal grande e disgraziatissimo libro di Arcangeli: «Questa non è soltanto scelta di pittura, è insieme una scelta, e insieme un destino inevitable di vita; combacianti, mi si perdoni un’autocitazione “entro la misura di un raggio visivo che è anche raggio della coscienza”».
Exit Morandi (in mare aperto)
Nel video che accompagna la bella mostra di Morandi a Varese, è compreso un documento straordinario: è il commiato che Roberto Longhi registrò davanti alle telecamere dell’Approdo il 28 giugno 1964 alla notizia della morte del pittore. Il testo divenne l’editoriale di Paragone (n. 175) e oggi , con il titolo Exit Morandi, chiude il Meridiano che raccoglie i più importanti scritti di Longhi. Ma è un testo abbreviato da cui è stato espunto un passaggio che invece mi ha molto colpito. Il Longhi televisivo in un inciso parla di una grandezza “non gozzaniana” di Morandi. Forse per rispetto a Gozzano ha voluto espungere quel passaggio. Ma quell’inciso è una geniale precisazione di geografia critica. Morandi veniva proiettato su una dimensione internazionale («austero viandante la cui “vox clamantis” raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea»).
Quella sfida impropria tra Raffaello e Fontana
Due interessanti interviste toccano il tema della natura e del destino dell’arte contemporanea. La prima su Repubblica a Richard Sennett, sociologo, autore di un nuovo saggio su L’uomo artigiano. La seconda a Philippe de Montebello, per 30 anni direttore del Metropolitan di New York (dal Giornale dell’arte).
Domanda: Il suo libro è anche una critica all´arte contemporanea, ormai svincolata dalla materialità?
Richard Sennett: «Anche l´arte, come il lavoro, deve ritrovare il suo rapporto con la fisicità, per non rischiare di essere puramente mentale. Lo sa che i lettori più entusiasti di questo libro sono stati proprio i giovani artisti, che hanno un forte desiderio di riscoprire l´aspetto artigianale del loro lavoro, del tutto trascurato negli ultimi decenni? E forse non è un caso che di recente, ad una mia conferenza su Giorgio Morandi, sono accorse centinaia di persone. Morandi era infatti un vero artigiano».
Domanda: Collezionare arte moderna pone delle sfide…
Philippe de Montebello: «Abbiamo preso la decisione di non comperare troppe opere di questa generazione. Ci sarà molto tempo, se qualcuno si affermerà come artista, per comperare le loro opere nei prossimi 50 anni. I principali musei di arte contemporanea di New York sono le gallerie private».
Pensiero: proprio l’altro giorno visitando alla Pinacoteca Tosio Martinengo un accostamento tra contemporaneo e classico (Capolavori in corso, sino al 1 febbraio), si riscontrava l’enorme fatica che il contemporaneo fa nel confronto con l’antico. È una fatica proprio sul piano mentale, come se l’antico alla fine sbriciolasse il contemporaneo proprio per l’energia della propria struttura concettuale (va detto ad onor del vero che la selezione di opere di Foppa – Moretto – Romanino – Savoldo della Tosio rappresentano uno dei più grandi spettacoli che la storia dell’arte possa mettere in campo). L’amatissimo Fontana (Tagli in rosso) sembra paradossalmente “casuale” rispetto all’esattezza del taglio sul costato di Cristo, dipinto da Raffaello. O il confronto era improprio, o il contemporaneo avrebbe bisogno di non essere ridotto a gioco.
Restiamo tutti appassionatamente contemporanei, senza nessuna nostalgia, ma senza creare idolatrie idiote.
100mila lire per Morandi
In occasione della bella e sobria mostra di Morandi organizzata a Villa Panza a Biumo da Anna Bernardini (Giorgio Morandi, collezionisti e amici, sino all’11 gennaio), veniamo a riscoprire il profilo di un artista la cui moralità oggi certo sconcerterebbe. Quando Francesco Paolo Ingrao, collezionista sardo, ansioso di avere una sua opera, gli mandò un assegno di 100mila lire, ebbe questa risposta da un Morandi imbarazzato: «Sarà necessario che ci intendiamo perché non mi è possibile accettare tanto denaro per un dipinto». Tanto denaro per un dipinto: e sì che i dipinti erano quasi tutti centellinati e filtratissimi capolavori. Come la serie di bottiglie che animano l’VIII sezione della mostra varesina. Bottiglie lunghe e strette dei vinai e delle trattorie bolognesi, che Morandi colorava di bianco per evitare il disturbo dei riflessi luminosi. Composte in un equilibrio meditato e assoluto, vibrano di una tensione quasi da spasimo. Difficile immaginare un simile equilibrio di pudore e di arditezza.
Sempre nel bel saggio in catalogo (edizioni Skira) di Flavio Fergonzi viene ricordato un episodio che consacrò la fama di Morandi, al di là certamente dei suoi desiderata. Nella Dolce Vita di Fellini, Mastroianni e Steiner dialogano davanti a una natura morta morandiana: «Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno… dipinti con uno stacco, un rigore che li rendono quadi intangibili. Si può dire che è un’arte in cui niente accade per caso». Chapeau. (Certo è sorprendente pensare che Fellini sfosse stato stregato da Morandi, così lontano da lui. Sarebbe bello saperne di più).