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Una nota a pie’ di pagina
Lo dice Charles Saatchi in un’intervista al Corriere a proposito dei pittori da lui lanciati in questi anni: alla fine, la maggior parte dei protagonisti della Young British Art, saranno tutt’al più una nota a pie’ di pagina nelle storie dell’arte del futuro. Onestà un po’ cinica del mercante e del pubblicitario. Che dopo aver creato delle mitologie, riporta tutti con i piedi per terra. Che la critica abbia da imparare?
(A proposito. Al Mambo di Bologna, un’ala è dedicata alla nuova arte italiana. Si fa un giro per vedere chi c’è e chi non c’è – e in genere quelli che devono esserci ci sono sempre tutti. Così t’accorgi che il museo si riduce a uno scontato appello. Ricordare, si ricorda oggettivamente poco, e in genere sono cose già viste in altri musei… Ma la giovane arte non è meglio che vada per le strade a misurarsi con la vita invece che accasarsi comodamente nelle sale di un museo? E se domani fossero solo una “nota a pie’ di pagina”?)
Morandi all’ultimo fiato
Bellissima la mostra di Morandi al Mambo di Bologna, nonostante quel verdino rachitico steso sulle pareti, nonostante un’illuminazione (nelle prime sale) un po’ troppi intimistica, nonostante quella sede che è un mausoleo con l’ambizione o la fregola di essere luogo d’avanguardia. Nonostante tutto questo, la scelta delle opere è perfetta e il percorso della mostra ha pochissime sbavature: ed è quel che più conta. Ma conta soprattutto che Morandi esca da questa mostra (che viene dal Metropolitan di New York) come un gigante. Innanzitutto, dentro una biografia che è fatta di costanti e di assoluta sedentarietà, si scorge invece benissimo il processo di maturazione: si individua la meta. Dalle prime opere, quasi grondanti e rigogliose di pittura Morandi passa nel salutare bagno nella metafisica e, come disse sempre Longhi, alla meditazione sulla verticalità di Piero della Francesca. Morandi è un “principe costante”, e si riconosce questo suo lavorio nelle varianti di serie, dove si vede, ad esempio, come possa fermarsi (e ripetersi) per approfondire l’idea di un oggetto con la linea obliqua oppure i problemi di una composizione con un oggetto arretrato. Sono meditazioni serrate, lucide, intellettualmente alte: la mostra conferma come la tenuta mentale sia la carta vincente di Morandi. Per questo l’America non ha fatto fatica a capirne la grandezza. Stupefacente poi è il finale, con quel rarefarsi di tutto, con la pittura che cerca di essere appena un alito, che prende il rischio, estremo ma inseime dolcissimo, di posizionarsi sulla soglia del niente. E le ultime carte (nella foto) approdano, in miniatura (ma la piccolezza non è affatto una dimensione riduttiva dela grandezza…), sugli stessi terreni di Rothko.
P.S.: In mostra c’è anche il quadro con le conchiglie che Morandi donò a Francesco Arcangeli. Un capolavoro cupo, forse il più cupo che Morandi abbia mai dipinto (è degli anni della Guerra). Ma è un quadro che richiama una delle più combattute e drammatiche fratellanze tra artista e critico della nostra storia culturale. Riporto dal grande e disgraziatissimo libro di Arcangeli: «Questa non è soltanto scelta di pittura, è insieme una scelta, e insieme un destino inevitable di vita; combacianti, mi si perdoni un’autocitazione “entro la misura di un raggio visivo che è anche raggio della coscienza”».