Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

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Troppo Maxxi stroppia

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In genere non amo i musei di arte contemporanea, proprio perché amo l’arte contemporanea: che è forte e tiene svegli proprio in quanto non ha casa, in quanto fiorisce e poi accetta di dissolversi, in quanto osa anche con il rischio di sconcertare. L’arte contemporanea deve stare su piazza, cioè sul mercato. Deve accettare di stare nel disordine del mondo: quando cerca consacrazione e si infila in luoghi tutti infighettati, ci muore dentro.
Il MAXXI, che ha aperto in pompa magna a Roma, nella sua concezione, è appunto uno di questi luoghi. È un museo impegnativo sotto ogni profilo: quello dei costi innnazitutto (150milioni per realizzarlo, tanti soldi per gestirlo); impegnativo sotto il profilo architettonico: è stato affidato infatti all’architetto più ammirato di questo inizio di millennio, Zaha Hadid, che ha realizzato una struttura certamente di grande fascino ma che chiede una programmazione complicata e ambiziosa. Per di più, come è successo per il celebre Guggenheim di Bilbao è un contenitore che tende a mangiarsi il contenuto. Difficile concepire una mostra che non naufraghi in quegli spazi imprendibili e spaesanti concepiti dall’architetta irachena naturalizzata londinese.

Per questo la domanda di fondo da porsi è una sola: ma Roma aveva proprio bisogno di un museo così? La risposta ovviamente per me è “no”. Primo, perché Roma è una città che si misura sui millenni e non si capisce in base a quale insulso calcolo dovrebbe consumarsi sulle frontiere incerte del contemporaneo. Secondo, perché non essendo una fucina del contemporaneo, Roma si riduce a fare la retorica del contemporaneo. E le paginate piene di punti esclamativi di questi giorni confermano questa sensazione. Si prende tutto a scatola chiusa.

C’è qualcuno che decantando le meravigliose prospettive del MAXXI ha proposto il paragone all’esperienza parigina del Beaubourg. Secondo siamo proprio agli opposti. A cominciare dalla concezione architettonica, che fa del museo romano una struttura tutta di cesello, da guardare e non toccare. Invece il museo parigino è stato pensato come un grande cantiere a pancia perennemente aperta. Il MAXXI sarà un’entità blindata («un luogo che concettualmente rispecchia la fluidità, però nella pratica è poi molto unitario», lo ha elegantemente bollato Angela Vettese). Invece il Beaubourg è come una piazza aperta e vissuta, che affianca al museo quell’immensa biblioteca e videoteca dove ogni giorno si affollano centinaia di studenti, di donne e uomini sintonizzati sui canali tv di tutti i paesi del mondo. Una macchina dalle cento funzioni diverse. È un luogo di cultura che si fa, oltre che di cultura celebrata.

Written by giuseppefrangi

Maggio 31, 2010 at 9:42 PM

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L’idolatria del contemporaneo

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Su Repubblica di lunedì scorso Paolo Vagheggi si è lanciato in una curiosa apologia del Macro (per chi non lo sapesse, è il Museo – comunale – di arte contemporanea di Roma). Secondo Vagheggi il Macro doveva essere niente di meno che il «simbolo della rinascita culturale italiana». Ora invece, dopo la mancata conferma (causa il cambio di colore della giunta comunale) dell’incarico di direttore a Danilo Eccher, è rimasto senza guida. Il che certamente non è una bella cosa e la tristezza dei guardiani descritta dal giornalista è lì a testimoniarlo. A dire tutta la verità, non è che quei guardiani li vedessimo molto felici neanche nelle visite che ci è capitato di fare in questa suggestiva struttura, nel cuore di un quartiere popoloso di Roma. Le mostre, alcune anche belle, le trovavamo regolarmente deserte. Il bookshop un po’ triste e dimesso per scarsi affari. Se la rinascita della cultura italiana passava di lì, francamente non ce ne siamo accorti. Immaginiamo poi che la tristezza debba essere montata mano a mano che, sempre a Roma, avanzava il cantiere del Maxxi, il fantasmagorico Museo di arte contemporanea della capitale, progettato da Zaha Hadid (le due XX del nome ne indicano la taglia…). Sarebbe interessante capire chi ha avuto l’idea geniale di sviluppare due strutture molto impegnative, tutt’e due dedicate all’arte contemporanea in una città che certo non manca (!) di offerta culturale e artistica. Quindi non lamentiamoci di chi ridimensiona i progetti ma piuttosto di chi li ha così maldestramente pensati.
Inoltre l’arte contemporanea, proprio perché tale, è molto meglio che resti il più possibile nell’arena della vita e non pretenda di entrare nei musei. È una garanzia di vitalità. E inoltre si evita di alimentare la spiacevole dinamica che, attraverso l’uso delle strutture pubbliche, in realtà finisce per favorire interessi di mercato (la cosa è del tutto inevitabile). In un museo, lo dice la parola stessa, entrino valori consolidati. Prima si accetti il gioco spericolato della vita.

Written by giuseppefrangi

novembre 21, 2008 at 2:54 PM

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