Archive for gennaio 2010
Gli stracci di Efeso
A proposito di vestiti-stracci alla Boltanski, l’amica Paola Marzoli mi manda questa mail con foto allegata.
Mi ha molto colpito e ve la propongo (con la sua autorizzazione): «Boltanski è specchio fedele del mondo visto appunto dal Grand Palais. Dalla vetta del successo. Subito mi ha ricordato un passaggio densissimo della mia vita. Nel 2003 ero andata ad Efeso… Ho seguito un po’ controvoglia gli amici che sopra la città romana, per dovere di turisti superpartes, sono andati alla ‘casa della Madonna’. C’erano molti pellegrini sia cristiani ma soprattutto mussulmani. La Madonna è venerata dai mussulmani e mi sembra che chiamino il santuario di “marien manà” circa “maria mamma”. Allora ero molto infastidita dalle espressioni del pellegrinaggio popolare. Davanti alla casetta ho fotografato quello che vedi sotto in diversi ravvicinamenti. Graticci all’aperto su cui ogni pellegrino annoda uno straccetto con la sua preghiera. Ho messo uno straccetto anch’io. Così. A questi straccetti votivi appesi alla pietà di “marien manà” mi ha riportato Boltanski.
Anche esteticamente molto più belli del suo mucchio. Ma così è. Boltanski non dice bugie.
A Efeso i frammenti, gli stracci della nostra miseria di poveri pellegrini turchi stesa ad asciugare davanti alla Madonna. Boltanski come un Prometeo deluso e non arreso gonfia i suoi stracci esponendo se stesso alla gloria del pubblico e della fama personale al Grand Palais».
Non so a voi, ma a me sembra che qui emerga quella dimensione che manchi a Boltanski: il senso che nulla può essere ostacolo alla bellezza.
Boltanski, tristissima grandeur
Sta raccogliendo consensi entusiastici la gigantesca installazione che Christian Boltanski ha realizzato sotto le volte del Grand Palais di Parigi. La materia prima sono i vestiti dismessi: disseminati sul pavimento a comporre quadrati regolari tra i piloni di ferro e poi ammucchiati alla fine del percorso in un’enorme montagna che si alza sotto la cupola del Grand Palais. Lì c’è una gru che continua ad “azzannare” i vestiti e a ributtarli in cima al mucchio. Non ho visto l’installazione che s’inserisce nel ciclo Monumenta. Ma girano tantissime immagini (qui ne vedete di belle) e mi permetto di osare qualche idea. Il titolo che Boltanski ha dato all’opera è volutamente ambivalente: “Personne”, che in francese sta per “persona” e per “nessuno“. Mi sembra che la seconda accezione sia più decisiva per la comprensione dell’opera, che racconta una riduzione a nessuno delle persone. È l’idea di un’umanità depredata, svuotata. Ridotta a straccio. Il freddo che Boltanski ha imposto nel palazzo trasmette (immagino) quella sensazione sulla propria pelle. C’è come un desiderio di castigazione e forse anche di autocastigazione. Ne deduco che quella di Boltanski è arte depressa. Al visitatore non resta che farsi auscultare il cuore alla fine del percorso, per accrescere quell’altra opera strana dell’estroso Boltanski: raccoglie (per conto di una fondazione giapponese) le registrazioni dei battiti dei cuori: è già arrivato a 30mila. Evidentemente siamo all’ultima stazione dell’intimismo. Siamo in un cerchio senza uscite. Scusate, ma godere di starci dentro non è segno di buona salute mentale…
Stracci per stracci molto più interessante il cortocircuito della Venere di Pistoletto. Lui confondeva i registri, abbassava Venere o forse innalzava davvero gli stracci. Comunque creava una novità estetica vera. Lasciava e lascia spiazzati. Io ho sempre pensato che se Venere si vestisse di quegli stracci sarebbe elegantissima. Gli stracci di Boltanski invece ti mettono addosso tristezza e non ti scaldano neppure…
Ma la street art resti al posto suo
Dalla newsletter sempre molto ben fatta di Exibart, veniamo a sapere che uno dei nuovi alberghi di extralusso aperti in questi ultimi tempi a Milano, il Boscolo di corso Matteotti, si appresta ad ospitare una rassegna di opere di street art. I nomi degli invitati sono tutti rigorosamente rockettari, punk, alternativi: FlyCat, Airone, KayOne, Mambo, Sea Creative, El Gato Chimney, Ericsone, Tak, Mr. Wany, Raptuz. Ma diciamoci: che ci fanno negli ambienti tardo pop progettati da Italo Rota per quell’albergo da milionari? È il solito vezzo dei ricchi, che vogliono restare ricchi ma darsi una patina ribellistica. Nossignori, i ricchi facciano i ricchi. Sono meglio quelli che coltivano gusti aristocratici. Come sono meglio gli artisti di strada che accettano la sfida della strada.
A proposito dei quali: molti mi hanno chiesto informazioni sul Murales di Lambrate realizzato a Milano da Blu. Lo si trova al lato della stazione, ma aldilà del tunnel che passa sotto i treni (lato via Rombon). Affrettatevi, perché sta molto soffrendo per l’umidità. E a fianco ne vedrete un altro sorprendente, realizzato da un altro writer che merita attenzione e che si firma Ericailcane (bolognese pure lui). Eccolo qua sotto, intanto.
Gio Ponti come Ettore Spalletti
Ieri un po’ per caso sono capitato a Milano davanti alla chiesa di San Luca costruita da Gio Ponti. È in una posizione molto defilata, zona via Porpora. Non è su una piazza, ha un lotto non grande in mezzo a condomini dai sei piani in su. Insomma una chiesa mangiata dalla città. Ponti ha dovuto lavorare con pochi mezzi e pochi spazi. Ha innalzato il piano della chiesa per fare stare sotto tutte le strutture di servizio, ha pensato una pianta elemenare a capanna che si annuncia nella facciata, di una semplicità straordinariamente accogliente: infatti è leggermente convessa e arretrata di pochi metri e protetta da una tettoia a capanna che scende a chiudere anche i lati. Devo dire che poche chiese del 900 mi ha subito comunicato l’idea di essere “semplicemente” chiesa, senza nessun sovraccarico di altri significati. Anche l’interno è semplice (a parte il presbiterio rifatto e un po’ pasticciato, stile marmi levigati): con le fasce bianche e azzurre della grande parete absidale, su cui domina un semplice crocifisso in legno di olmo. Una cosa un po’ francescana e un po’ neo romanica senza passatismi (del romanico a fasce di Pisa). Ma quello che più sorprende è la grande volta della chiesa dipinta tutta di un azzurro intensissimo. Una volta color Madonna. Sembra un Ettore Spalletti ante litteram (qui trovate un po’ di foto).
A me Brera piace così
Stavolta sembra su Brera si faccia sul serio. Carlo Resca, direttore del Ministero dei Beni culturali, è stato delegato a seguire il progetto della Grande Brera dentro le inistiave per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Al centro della questione c’è il trasferimento dell’Accademia, su cui tutti sembrano d’accordo, tranne i diretti interessati, che ne fanno una questione di metri quadrati: gli spazi delle caserme di via Mascheroni, destinazione futura dell’Accademia sarebbero inadatti e troppo scarsi. Più che una questione di spazi io ne farei una questione di contiguità. Il valore aggiunto di Brera (Accademia) sta nello stare al piano di sotto di Brera (Pinacoteca). È un filo diretto che crea disordine, che limita gli spazi ma che ha fatto la storia di Milano. Ha fatto contaminazione tra passato e presente. So che è un’idea controcorrente, ma io l’Accademia non la sposterei mai da lì. E non so se gli spazi davvero manchino, visto che il grande Palazzo Citterio dal 1972, acquistato da un previdente Franco Russoli, sono ancora lì che attendono la loro destinazione. A me sembra che il problema sia la volontà di fare una pinacoteca pulita e asettica, su misura per un turismo che a Milano in realtà non esiste. Un luogo turistico a tutti gli effetti, secondo gli standard un po’ demenziali del turismo culturale di massa di oggi. Invece amo lo sporco di Brera, le scritte, il disordine. Mi dicono che lì c’è vita. E che un po’ di quella vita è risultante della luce dei capolavori che stanno al piano di sopra. E non credo davvero che sia romanticismo…
Quel bellissimo murales di Lambrate
Qualche giorno fa passando per la stazione di Lambrate, a Milano, ho visto un murales sorprendente. Lo ha realizzato un writer di Bologna che poi ho scoperto essere un nome molto conosciuto, che si firma con lo pseudonimo Blu (c’è anche una monografia su di lui). Il murales di Lambrate (qui le foto) è immenso e si allunga su un muro ribaltando, in modo immaginifico, la gerarchia quotidiana del traffico cittadino: una marea di piccole macchine vengono schiacciate dalle ruote di ciclisti “ciclopi”. L’effetto è spiazzante, il segno grafico è molto efficace ed insieme evocativo, come quello di un William Kentridge nostrano. Decisamente questo è un modo di sfondare un muro, di dare una visione che che fa pensare e insieme fa divertire. Una riscossa simbolica di cui tutti ci sente parte.
Che cosa distingue questo murales dai mille altri che colorano (o appestano) i muri di Milano? A parte la differente qualità degli esiti, credo che la differenza vera stia nella genesi. Qui i murales sono capacità di rendere pubblico e visibile un sentimento diffuso. Di creare immagini provocatorie, ironiche, ma ultimamente partecipate. Diventano un fatto pubblico nel senso pieno del termine. Invece la deriva che la street art ha preso specie in una città come Milano è una deriva di narcisismo (non per niente era stata celebrata due anni fa con una tremenda mostra al Pac dal principe dei narcisisti, Vittorio Sgarbi). È espressione ombelicale; pura istintività che parla tutt’al più ai compagni d’avventura e infastidisce tutti gli altri. Se li guardate, vedrete che nella gran parte sono solo varianti, più o meno bello, dei “tag”, cioè delle loro firme. In sostanza il murales coincide con la firma. Non si va al di là di questo. In sostanza è ripetizione infinita di un solo motivo. Per fortuna c’è anche Blu…
Il murales di Lambrate è anche merito della volontà di una gallerista (Patrizia Armocida) e di un dirigente di Trenitalia (Marco Vincenzo Raimondi).
Caravaggio, lasciamolo nudo
Prepariamoci al profluvio caravaggesco per il centenario. La mostra romana si annuncia molto sotto le aspettative, una delle tante viste in questi anni, con poco di più. Mi sarebbe piaciuto vedere i grandi quadri di San Matteo fuori dalla cappella, ma non sarà così (uscirono per la grande mostra longhiana a Milano del 1951: bei tempi, mostre serie…). Tra le prime uscite giornalistiche dell’anno centenario dobbiamo registrare l’articolessa di Antonio Paolucci, uscito domenica 3 gennaio su Avvenire. Un articolo da tuttologo cravaggesco: niente di che. Ma mi ha colpito il finale, in cui Paolucci cita Longhi, dai Quesiti Caravaggeschi del 1928-29: «Il dirompersi delle tenebre rivelava l’accaduto e nient’altro che l’accaduto». Citazione straordinaria Peccato che Paolucci la chiosi in modo disgraziatissimo: «Occorre aggiungere tuttavia che il mondo svelato dalla luce con inesorabile obiettività per Caravaggio è (può essere) un mistero ontologico abitato dai segni del Sacro». Punto primo: mi tengo istintivamente alla larga dal Sacro con la S maiuscola. È un cappello indebito e anche un po’ ambiguo messo sull'”accaduto”. L'”accaduto” basta e avanza, come emergere di Dio nella storia. Punto secondo: quella di Longhi è un’intuizione straordinaria per capire Caravaggio dal punto vista critico; la sua è capacità di fissare in modo fulminante l’accaduto, di non farne una rievocazione ma un “accaduto” che accade nel suo presente. Non è un caso che Longhi nella presentazione alla mostra milanese aveva scritto che la categoria chiave di Caravaggio, quella che dà ragione della sua novità, è quella dell’“oggi”. E per chiarezza aveva messo “oggi” in corsivo.
Sempre a proposito del nostro segnalo l’intervento di Marco Bona Castellotti su Il sole della domenica (3 gennaio). Nell’articolo si anticipa una “scoperta” di Rossella Vodret in un libro di prossima uscita: i dipinti a muro sull volta del Casino Ludovisi a Roma (gli unici che si conoscano di Caravaggio) sono tre autoritratti, fatti mettendo lo specchio sotto i piedi. Si vede Caravaggio, spavaldo, nudo, con il sesso in vista, che si rappresenta in tre scorci arditi. Sotto, nella stanza, il cardinal Del Monte faceva i suoi esperimenti alchemici in questo suo rifiugio defilato. Caravaggio risponde con l’unica alchimia che gli appartenga: quella del corpo e della realtà messa a nudo (letteralmente). Il tutto, sempre, alla luce del sole.