Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

Archive for Maggio 2010

Troppo Maxxi stroppia

with 8 comments

In genere non amo i musei di arte contemporanea, proprio perché amo l’arte contemporanea: che è forte e tiene svegli proprio in quanto non ha casa, in quanto fiorisce e poi accetta di dissolversi, in quanto osa anche con il rischio di sconcertare. L’arte contemporanea deve stare su piazza, cioè sul mercato. Deve accettare di stare nel disordine del mondo: quando cerca consacrazione e si infila in luoghi tutti infighettati, ci muore dentro.
Il MAXXI, che ha aperto in pompa magna a Roma, nella sua concezione, è appunto uno di questi luoghi. È un museo impegnativo sotto ogni profilo: quello dei costi innnazitutto (150milioni per realizzarlo, tanti soldi per gestirlo); impegnativo sotto il profilo architettonico: è stato affidato infatti all’architetto più ammirato di questo inizio di millennio, Zaha Hadid, che ha realizzato una struttura certamente di grande fascino ma che chiede una programmazione complicata e ambiziosa. Per di più, come è successo per il celebre Guggenheim di Bilbao è un contenitore che tende a mangiarsi il contenuto. Difficile concepire una mostra che non naufraghi in quegli spazi imprendibili e spaesanti concepiti dall’architetta irachena naturalizzata londinese.

Per questo la domanda di fondo da porsi è una sola: ma Roma aveva proprio bisogno di un museo così? La risposta ovviamente per me è “no”. Primo, perché Roma è una città che si misura sui millenni e non si capisce in base a quale insulso calcolo dovrebbe consumarsi sulle frontiere incerte del contemporaneo. Secondo, perché non essendo una fucina del contemporaneo, Roma si riduce a fare la retorica del contemporaneo. E le paginate piene di punti esclamativi di questi giorni confermano questa sensazione. Si prende tutto a scatola chiusa.

C’è qualcuno che decantando le meravigliose prospettive del MAXXI ha proposto il paragone all’esperienza parigina del Beaubourg. Secondo siamo proprio agli opposti. A cominciare dalla concezione architettonica, che fa del museo romano una struttura tutta di cesello, da guardare e non toccare. Invece il museo parigino è stato pensato come un grande cantiere a pancia perennemente aperta. Il MAXXI sarà un’entità blindata («un luogo che concettualmente rispecchia la fluidità, però nella pratica è poi molto unitario», lo ha elegantemente bollato Angela Vettese). Invece il Beaubourg è come una piazza aperta e vissuta, che affianca al museo quell’immensa biblioteca e videoteca dove ogni giorno si affollano centinaia di studenti, di donne e uomini sintonizzati sui canali tv di tutti i paesi del mondo. Una macchina dalle cento funzioni diverse. È un luogo di cultura che si fa, oltre che di cultura celebrata.

Written by giuseppefrangi

Maggio 31, 2010 at 9:42 PM

Pubblicato su pensieri

Tagged with , , ,

Giotto e quel bacio sulle labbra

with 9 comments

Leggendo qua e là il nuovo libro di Chiara Frugoni La voce delle immagini mi sono imbattuto in questa immagine ben nota. È un dettaglio dell’Incontro tra Gioacchino e Anna sotto la Porta d’oro, dipinto da Giotto agli Scrovegni. L’episodio è legato alla concezione di Maria e la Porta d’oro è una trasposizione simbolica dell’Immacolata concezione (che a quei tempi era verità ancora molto discussa nella Chiesa).

Ero abituato a vedere l’immagine nell’insieme, con  quel senso supremo della costruzione di cui Giotto era maestro. Trovarmi davanti questo dettaglio stretto, quasi un close up su quel bacio tra i due anziani sposi, mi ha folgorato. Date un occhio ai dettagli di questo dettaglio: le mani di Anna che stringono la testa del marito e ne accarezzano i capelli e la barba, il suo occhio innamorato che si fissa su di lui. Il braccio di Gioacchino che gira largo sulla spalla della moglie, quasi trattenuto dal pudore. I due volti che non si sfiorano ma si toccano. E poi quel bacio sulle labbra, così intenso, così tenero, così fisico. Mi colpisce che sia Anna a prendere l’iniziativa, a rovesciare il copione. È lei che esterna in pubblico il suo amore, senza problemi. Trovo che sia un’immagine immensa, di una densità umana che commuove e trasmette felicità. Pensare ad un amore che persiste così deciso pur nell’età che avanza; pensare ad un piacersi che non conosce stanchezza; pensare a uno stimarsi che non disdegna l’attrazione fisica; pensare a tutto questo è cosa che non ti fa togliere gli occhi da quell’immagine. Fosse per me riempirei le città di immagini così… Le immagini guariscono il cuore e il cervello (quanto è stata grande la Chiesa a capirlo e a difenderle, prendendosi tutti i rischi, quella volta a Nicea quasi 1300 anni fa…)

Written by giuseppefrangi

Maggio 25, 2010 at 10:00 PM

Pubblicato su pensieri

Tagged with ,

McCarthy e Cattelan, aspettando Bossi

with 2 comments

Sono andato a vedere la mostra organizzata dalla Fondazione Trussardi di Paul McCharty a palazzo Citterio. Palazzo Citterio è un palazzo di cui Milano sembra essersi dimenticata: a due passa da Brera, avrebbe dovuto accogliore lo sviluppo della Grande Brera. Negli anni 80 cominciarono gli interventi architettonici di ripristino, poi tutto s’è fermato. Oggi giace lì già datatassimo e ridotto a rudere contemporaneo. Ci si chiede come Milano possa accettare uno spettacolo di simile tristezza. E la bella borghesia che si autodefinisce Amici di Brera in questi 30 anni cosa è stata lì a fare? All’interno la Fondazione Trussardi diretta da Massimilano Gioni ha presentato un ciclo di opere di Paul McCarthy. Complimenti per la scelta della location attuata da questa istituzione itinerane: almeno ha dissepolto questa vergogna milanese e la tristezza dei luoghi, vere cantine metropolitane dimenticate dai viventi. McCarthy in sede di presentazione viene definito «leggendario artista americano che con la lunga carriera ha scritto pagine findamentali della storia dell’arte contemporanea». Mi permetto qualche di nutrire qualche dubbio in proposito. Sarà un mio limite, ma non sopporto più l’orrore che non si fa carico del dolore. Troppo facile liquidare il mondo e l’uomo come un’Isola dei porci (è il titolo sin troppo didascalico della mostra). E poi mi ripugna questo voler tenere insieme il glamour ben palesato della macchina organizzativa con il compiacimento per il disgusto di McCarthy. Che il mondo sia un porcile non devono essere gli stilisti a venircelo a dire…

Poi è rieploso un caso Cattelan. Invitato a fare una mostra dal Comune, anticipando la grande rassegna che gli dedicherà il Moma, ha incontrato sulla sua strada le pruderie del sindaco Moratti (esemplare di quella bella borghesia di cui sopra, che quando non è addormentata si lascia prendere dall’isteria). Ora, se inviti Cattelan, sai che qualche rischio te lo prendi. Confinarlo al Pac e impedirgli di esporre la mano che fa le fiche davanti al palazzo della Borsa mi sembra un’idiozia. Cattelan, furbo di tre cotte, annunciando a Francesca Bonazzoli la notizia del veto e la sua conseguente rinuncia a fare la mostra, ha detto che se Milano fosse stata governata da Bossi non avrebbe incontrato resistenze (del resto immagino che la sua mano in marmo di Carrara, a cui sono state tagliate tutte le ditea, tolto il medio sia sgtata ispirata da quella celebre foto di Bossi; se non ve la ricordate eccola qui si sotto). «Sono convinto che se ci fosse stato Bossi come sindaco non solo avrebbe accettato la statua della mano, ma l’ avrebbe voluta in permanenza perché è una statua che, collocata proprio di fronte al palazzo della Borsa, alla fine parla della rabbia dei cittadini verso quello che Bossi chiamerebbe il teatrino della finanza». Bisognerebbe portare Cattelan nelle cantine di palazzo Citterio. Probabilmente gli ispirerebbero qualche idea interessante.

Written by giuseppefrangi

Maggio 23, 2010 at 10:42 am

L’ultima donna di Matisse

with 2 comments

A Chateau Cambresis, il paese natale di Matisse, nella regione di Calais, hanno realizzato una mostra dedicata alla modella che ha accompagnato gli ultimi 30 anni della sua vita. Si chiamava Lydia Delectorskaya, era russa, nata nel 1910, e conobbe l’artista nel 1932. A causa sua il matrimonio di Matisse con la moglie Omelie andò in crisi, anche se lei ha giurato che il rapporto tra loro era sempre stato platonico. Era bionda con la pelle chiara e Matisse la definiva una “principessa di ghiaccio”. Tra lei e il maestro c’erano 40 anni di differenza. In mostra ci sono 21 quadri e 120 disegni in cui Lydia fa da modella (ma sono ben 90 i quadri di Matisse in cui lei ha posato): la mostra si sposterà poi a Nizza dove si vedranno altri disegni ancora. Ma la cosa più soprendente esposta sono alcuni biglietti autografi che Matisse aveva dedicato a Lydia e che sono conservati al museo Puskin di Mosca. 9 maggio 1948: «La buona Lydia si dedica a tutti, non dimentica che se stessa»; dicembre 1948: «Quando L. D. si avvicina io guarisco; quando L. D. si allontana io mi ammalo. Bontà divina sarà questo che chiamano “charme” slavo che agisce. Ma è solo perché lei è buona». 5 luglio 1949: «Madame Lydia è un angelo, uno vero, ne sono certo». Per Matisse la modella è come un incanto. Il tramite che gli permette di entrare nel paradiso della sua pittura. Era successo così anche con Monique Bourgeois, arrivata da lui come infermiera e quindi modella e che poi sarebbe diventata, con  sua grande sorpresa, soeur Jacques Marie (la vera artefice dell’operazione cappella di Vence). Matisse negli ultimi anni diceva che in fondo «si è condotti, non si conduce affatto». Le modelle per Matisse sono l’evidenza di questo “essere condotti” (“… un angelo, uno vero…”). Va dietro a questa bellezza che la vita gli ha messo davanti. Direi, che beve questa bellezza. Non faccio fatica a credere che il rapporto non andasse oltre come L. D. ha sostenuto. Lydia ha scritto anche due libri su Matisse nel 1986 e nel 1996: sarebbero  da leggere. Qui sotto, L. D. in un ritratto del 1937. conservato a Houston.


Written by giuseppefrangi

Maggio 19, 2010 at 10:43 PM

Quel furtivo Cattelan da otto milioni di dollari

with one comment

Ha fatto otto milioni di dollari questo lavoro di Maurizio Cattelan, Untitled, 2001 (figura in cera). Un bel record, che raddoppia il suo precedente ( L’opera non era sua ma lui incassa i diritti di seguito). Dell’opera esistono tre esemplari, più una prova d’autore. L’esemplare che più si vede fotografato è quello nel museo di Rotterdam, che sbuca dal pavimento nel centro di una sala di pittura antica. E anche in questo divertente filmato, girato a New York (l’immagine l’ho “rubata” da lì), che spiega come si deve allestirlo, l’autoritratto di Cattelan sbuca nel centro di una raffinata parata di quadri antichi. Non voglio fare né apologie né demonizzazioni, ma certo Cattelan ha sempre una capacità di prenderti per simpatia. Sbuca, è il caso proprio di dirlo, dove meno te l’aspetti. E non sai mai se sia oggetto o soggetto. Qui sembra dire: «Mi piacerebbe essere all’altezza di questi, ma non so più da che parte si comincia. Vengo qui a sbirciare per carpire il segreto della loro forza. Magari di notte, quando non c’è nessuno, e i quadri pensano di non essere osservati da nessuno, combinano quelle misteriose alchimie che il giorno dopo li rendono capaci di incantare tutti. E io voglio essere lì a sorprenderli». Questo mi immagino dica Cattelan.

Dal vero, dice invece questo: «L’arte sta cercando una nuova identita e la cosa piu onesta mi sembra quella di avere una sana convalescenza avendo degli scambi in altri ambienti. Lo scambio e una cosa che ti da l’opportunità di rimetterti in discussione, la vedo solo sotto questo punto di vista».

E poi (parlando di Paolo Uccello e Goya): «Pero hanno una qualita che rappresenta in modo esemplare un’epoca, non semplicemente quel periodo, quel fatto. Un’epoca non la rappresenti per quella battaglia, ma per lo spirito dell’epoca. Sintetizzi un’esperienza, non un fatto».

E infine: «Mi ha sempre affascinato lo spostamento in termini di luogo, tempo, spazio, identità, punti di vista, la ridefinizione dello stesso soggetto in un altro luogo. Duchamp ha messo le basi di tutto questo, la ridefinizione del significato, ma anche dei luoghi. Quei piccoli spostamenti, gesti di un’energia minima, hanno prodotto un enorme risultato».

A  me piace questa “cosa” di Cattelan. C’è lo sguardo furtivo e stupito del bambino, che una cultura troppo cervellotica ha completamente smarrito. C’è l’ironia di chi sa di essere un clandestino là dentro e che quindi potrebbe essere cacciato da un momento all’altro, con buona pace di chi ha sganciato otto milioni di dollari… Io non spendo niente, ma voglio provare a sbirciare come lui.

Written by giuseppefrangi

Maggio 14, 2010 at 9:44 PM

La filatrice di Ceruti: l’energia del bene

with 5 comments

La definitiva donazione ai musei di Brescia di questo capolavoro di Giacomo Ceruti (La filatrice), che faceva parte del ciclo di Padernello, mi ha smosso un pensiero che se ne stava sopito e non adeguatamente messo a fuoco. Che questa tela sia un capolavoro, ci sono pochi dubbi: un quadro che sprigiona una simpatia umana come pochi. Un quadro fatto di niente, com’è fatta di niente la vita della filatrice. Eppure che cuore, che densità affettiva, che positività calma e irriducibile, che senso sano della vita sprigiona questo Ceruti! Inutile “dirne” perché quest’immagine parla con una decisività e con una evidenza che non ha bisogno di nessun supporto interpretativo. Piuttosto la domanda da fare è questa: su che cosa poggia un capolavoro come questo? Che tipo di struttura intellettuale lo ha generato? Perché la spontaneità non basta a spiegare, non basta dire che Ceruti era un pittore di natura “buona”. Ecco perciò il concetto che volevo mettere a fuoco: questo quadro è generato dall’energia del bene. È una categoria a cui non si dà mai dignità culturale.  Che si relega alla sfera dei comportamenti. Invece il bene è anche una categoria intellettuale, che quindi genera forme e immagini, che determina una coerente visione del mondo. Questo quadro di Ceruti è una quintessenza di questo senso del bene. Ma non è certo un quadro che si tira indietro, che accetta di farsi da parte nel segno di una docilità malintesa. Direi che la sua bellezza sta in una potenza mai prevaricante, eppure certamente in azione. Una potenza che ha nella travolgente persuasività la sua forza.

Il paragone immediato è a quel capolavoro assoluto che sono i Promessi sposi: li ho appena riletti e non ho finito di contare quante volte ritorna la parola “bene” tra quelle pagine. Ma vi dico che siamo vicini alle 500 occorrenze! Il bene come struttura del mondo, come motore della conoscenza, come energia generatrice dei rapporti che reggono la quotidianità. Forse  sarebbe l’ora di sdoganarlo…

Written by giuseppefrangi

Maggio 10, 2010 at 10:59 PM

Pubblicato su pensieri, Uncategorized

Tagged with , ,

Caravaggio non ci sta più nello scaffale

with 3 comments

Ho contato tra gli scaffali nella mia libreria. E ho scoperto di avere 42 libri su Caravaggio (solo Picasso lo batte con 51). Dovessi tenermi aggiornate con quel che sta uscendo dovrei uscire di casa e aprire un mutuo… Ma sinceramente non ce n’è bisogno. Basta sfogliare i volumoni in libreria per capire che si tratta sempre di ricicciamenti delle cose che si sanno. Le nuove uscite non sono mia il frutto di ricerche, ma alambiccamenti di operazioni editoriali. Oltrettutto non sono neppure buone la campagne fotografiche (il volume di Electa, di Francesca Cappelletti – 90 euro – ad esempio ha immagini magnifiche che si alternano a cadute di qualità scandalose, tipo la Resurrezione di Lazzaro). Tutti si piccano di dare chiavi ermeneutiche sulla pittura e sul personaggio. Ma sono in genere interpretazioni che lasciano tutti il tempo che trovano. Francamente l’ultimo libro che mi sia capitato tra le mani nel quale abbia trovato cose che non si sapevano è quello di Cristina Terzaghi dedicato al rapporto tra C. e i Costa («Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa», 2007) . Lì troverete ad esempio tutta la ricostruzione del caso che portò alla realizzazione della Giuditta (con il nesso straordinario con il dramma di Beatrice Cenci e il ritrovamento del corpo di santa Cecilia: Roma, 1598). Certo nel panorama di chi lavora e indaga su Caravaggio si sente il vuoto lasciato da un personaggio come Luigi Spezzaferro.

Per cui a chi mi chiede suggerimento su cosa leggere, Longhi a parte, raccomando l’utile e precisa biografia di Helen Langdon uscita nel 2002 da Sellerio. Sono 490 pagine a 24 euro. Ho molto attinto da questo libro poco spocchioso per realizzare una biografia di Caravaggio fatta per gli amici di 30Giorni. Leggete qui se volete…

Written by giuseppefrangi

Maggio 8, 2010 at 3:01 PM

Enzo Cucchi ha la mira giusta

with one comment

Bella, davvero bella l’intervista ad Enzo Cucchi firmata da Alain Elkan (“Il talento è un vizio assurdo”. La Stampa, 25 aprile. Non è archiviata purtroppo dal sito del quotidiano). Cucchi non si lascia mai prendere. Ci infila, e scappa via, secco, all’istante. Il modo di comunicare di un artista difficilmente è logico. Il meccanismo mentale è come quello di un bambino: arriva sulle cose e non capisci come abbia fatto. Azzecca immagini inimmaginate. Cucchi è così.

Domanda: Lei che artista è? Risposta: Sicuramente il migliore. Lo sanno gli artisti e sfido qualcuno a dire il contrario. Domanda: Che cosa vuol dire il migliore? Risposta: Il più pericoloso, il più fortunato e talentuoso. Oggi gli artisti sono garantisti, consociati in qualcosa che rassicura. Io ho dei pensieri senza giudizio, quello che accade è necessario ma ingiudicabile. Gli artisti esercitano vetrinismo, i musei sono pieni di casalinghe dell’arte. Gli artisti sono consenzienti.

Domanda: Lei disegna molto? Risposta: Faccio solo quello, e non disegno per narrare e raccontare quello devono farlo gli scrittori e gli illustratori. Il disegno è un’idea di un giorno… Domanda: Quanti disegni diventano poi quadri? Risposta: Non è importante quanti quadri ci saranno dopo un disegno. Un disegno seleziona un altro disegno. Dietro ogni grande autor c’è il disegno gli altri sono decoratori. Domanda: Come si impara a disegnare? Risposta: Non si impara. La cosa necessaria è l’istinto per le proporzioni. È come la mira, c’è chi sa mirare e chi no. Domanda: Bisogna esercitare molto la mano? Risposta: Non è fondamentale, una mano può essere perfetta ma non vuol, dire nulla.

Domanda: Il talento non finisce mai? Risposta: Io sono vittima. Sono un portatore sano, come se fosse un pregiudizio e un vizio assurdo.

Domanda: Lei lavora tanto? Risposta: Soprattutto quando striscio i muri.

Written by giuseppefrangi

Maggio 4, 2010 at 11:35 PM

Pubblicato su Uncategorized

Tagged with ,