Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

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Robedachiodi prosegue su…

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Written by giuseppefrangi

ottobre 20, 2011 at 9:48 PM

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Testori decapitato dalle figure

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È uscito in libreria una nuova edizione del Gran Teatro Montano.  Ne parla Avvenire in apertura dell’inserto culturale. La scelta davvero curiosa è quella di pubblicare il più bel libro d’arte di Testori senza le immagini relative. Può essere che la cosa sia stata dettata da ragioni di budget, dato che l’editore è un piccolo editore; anche se in realtà si è scelto di mettere altre immagini, quelle di uno scultore con cui Testori per altro ebbe a che fare negli ultimi anni della sua vita, Ilario Fioravanti. Siamo alle solite. Una cultura editoriale un po’ da strapazzo interviene su un libro importante come questo con criteri faciloni e del tutto arbitrari. Per Testori la scelta delle foto nei libri contava quanto i testi. Passava le ore e le giornate a seguire la realizzazione e il taglio delle immagini. Arrivo dire che certi autori esistono per il modo con cui Testori li ha fatti fotografare: penso a Beniamino Simoni, il grande scultore camuno, al quale dedicò un libro meraviglioso edito da un piccolo editore, la Grafo di Roberto Montagnoli (il problema evidentemente non è essere piccoli o grandi; è essere un buon editore o no…).  La campagna fotografica, che ancora ho stampata negli occhi, era stata fatta da Franco Rapuzzi. Sullo stesso Simoni uscì qualche anno dopo un libro scritto da Fiorella Minervino e fotografato senza “occhio” e senza cura: un libro che ha ridotto a figurini sdolcinati gli eroi furiosi di Simoni.

Oggi tocca a Gaudenzio. Eclissato visivamente proprio nel libro che l’aveva consacrato.  Quanto a Testori, paga un’altra volta un approccio tutto letterario ed estetizzante, con un’edizione che è il contrario di quella grande operazione di alfabetizzazione artistica che era stata nella sua chiarezza, nella sua eleganza e nella sua accessibilità l’edizione di Feltrinelli di 45 anni fa. Il testo in quel libro era un tutt’uno con l’apparato iconografico, espressione di una stagione straordinaria della fotografia d’arte, chiamata a raccolta per l’occasione: da Pizzetta a Lazzari, da Rampazzi a Reffo… Oggi è un testo decapitato.

Qui sotto la bellissima cover dell’edizione del 1965, disegnata da Ugo Brandi.

Written by giuseppefrangi

giugno 11, 2010 at 7:05 PM

Troppo Maxxi stroppia

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In genere non amo i musei di arte contemporanea, proprio perché amo l’arte contemporanea: che è forte e tiene svegli proprio in quanto non ha casa, in quanto fiorisce e poi accetta di dissolversi, in quanto osa anche con il rischio di sconcertare. L’arte contemporanea deve stare su piazza, cioè sul mercato. Deve accettare di stare nel disordine del mondo: quando cerca consacrazione e si infila in luoghi tutti infighettati, ci muore dentro.
Il MAXXI, che ha aperto in pompa magna a Roma, nella sua concezione, è appunto uno di questi luoghi. È un museo impegnativo sotto ogni profilo: quello dei costi innnazitutto (150milioni per realizzarlo, tanti soldi per gestirlo); impegnativo sotto il profilo architettonico: è stato affidato infatti all’architetto più ammirato di questo inizio di millennio, Zaha Hadid, che ha realizzato una struttura certamente di grande fascino ma che chiede una programmazione complicata e ambiziosa. Per di più, come è successo per il celebre Guggenheim di Bilbao è un contenitore che tende a mangiarsi il contenuto. Difficile concepire una mostra che non naufraghi in quegli spazi imprendibili e spaesanti concepiti dall’architetta irachena naturalizzata londinese.

Per questo la domanda di fondo da porsi è una sola: ma Roma aveva proprio bisogno di un museo così? La risposta ovviamente per me è “no”. Primo, perché Roma è una città che si misura sui millenni e non si capisce in base a quale insulso calcolo dovrebbe consumarsi sulle frontiere incerte del contemporaneo. Secondo, perché non essendo una fucina del contemporaneo, Roma si riduce a fare la retorica del contemporaneo. E le paginate piene di punti esclamativi di questi giorni confermano questa sensazione. Si prende tutto a scatola chiusa.

C’è qualcuno che decantando le meravigliose prospettive del MAXXI ha proposto il paragone all’esperienza parigina del Beaubourg. Secondo siamo proprio agli opposti. A cominciare dalla concezione architettonica, che fa del museo romano una struttura tutta di cesello, da guardare e non toccare. Invece il museo parigino è stato pensato come un grande cantiere a pancia perennemente aperta. Il MAXXI sarà un’entità blindata («un luogo che concettualmente rispecchia la fluidità, però nella pratica è poi molto unitario», lo ha elegantemente bollato Angela Vettese). Invece il Beaubourg è come una piazza aperta e vissuta, che affianca al museo quell’immensa biblioteca e videoteca dove ogni giorno si affollano centinaia di studenti, di donne e uomini sintonizzati sui canali tv di tutti i paesi del mondo. Una macchina dalle cento funzioni diverse. È un luogo di cultura che si fa, oltre che di cultura celebrata.

Written by giuseppefrangi

Maggio 31, 2010 at 9:42 PM

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Giotto e quel bacio sulle labbra

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Leggendo qua e là il nuovo libro di Chiara Frugoni La voce delle immagini mi sono imbattuto in questa immagine ben nota. È un dettaglio dell’Incontro tra Gioacchino e Anna sotto la Porta d’oro, dipinto da Giotto agli Scrovegni. L’episodio è legato alla concezione di Maria e la Porta d’oro è una trasposizione simbolica dell’Immacolata concezione (che a quei tempi era verità ancora molto discussa nella Chiesa).

Ero abituato a vedere l’immagine nell’insieme, con  quel senso supremo della costruzione di cui Giotto era maestro. Trovarmi davanti questo dettaglio stretto, quasi un close up su quel bacio tra i due anziani sposi, mi ha folgorato. Date un occhio ai dettagli di questo dettaglio: le mani di Anna che stringono la testa del marito e ne accarezzano i capelli e la barba, il suo occhio innamorato che si fissa su di lui. Il braccio di Gioacchino che gira largo sulla spalla della moglie, quasi trattenuto dal pudore. I due volti che non si sfiorano ma si toccano. E poi quel bacio sulle labbra, così intenso, così tenero, così fisico. Mi colpisce che sia Anna a prendere l’iniziativa, a rovesciare il copione. È lei che esterna in pubblico il suo amore, senza problemi. Trovo che sia un’immagine immensa, di una densità umana che commuove e trasmette felicità. Pensare ad un amore che persiste così deciso pur nell’età che avanza; pensare ad un piacersi che non conosce stanchezza; pensare a uno stimarsi che non disdegna l’attrazione fisica; pensare a tutto questo è cosa che non ti fa togliere gli occhi da quell’immagine. Fosse per me riempirei le città di immagini così… Le immagini guariscono il cuore e il cervello (quanto è stata grande la Chiesa a capirlo e a difenderle, prendendosi tutti i rischi, quella volta a Nicea quasi 1300 anni fa…)

Written by giuseppefrangi

Maggio 25, 2010 at 10:00 PM

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McCarthy e Cattelan, aspettando Bossi

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Sono andato a vedere la mostra organizzata dalla Fondazione Trussardi di Paul McCharty a palazzo Citterio. Palazzo Citterio è un palazzo di cui Milano sembra essersi dimenticata: a due passa da Brera, avrebbe dovuto accogliore lo sviluppo della Grande Brera. Negli anni 80 cominciarono gli interventi architettonici di ripristino, poi tutto s’è fermato. Oggi giace lì già datatassimo e ridotto a rudere contemporaneo. Ci si chiede come Milano possa accettare uno spettacolo di simile tristezza. E la bella borghesia che si autodefinisce Amici di Brera in questi 30 anni cosa è stata lì a fare? All’interno la Fondazione Trussardi diretta da Massimilano Gioni ha presentato un ciclo di opere di Paul McCarthy. Complimenti per la scelta della location attuata da questa istituzione itinerane: almeno ha dissepolto questa vergogna milanese e la tristezza dei luoghi, vere cantine metropolitane dimenticate dai viventi. McCarthy in sede di presentazione viene definito «leggendario artista americano che con la lunga carriera ha scritto pagine findamentali della storia dell’arte contemporanea». Mi permetto qualche di nutrire qualche dubbio in proposito. Sarà un mio limite, ma non sopporto più l’orrore che non si fa carico del dolore. Troppo facile liquidare il mondo e l’uomo come un’Isola dei porci (è il titolo sin troppo didascalico della mostra). E poi mi ripugna questo voler tenere insieme il glamour ben palesato della macchina organizzativa con il compiacimento per il disgusto di McCarthy. Che il mondo sia un porcile non devono essere gli stilisti a venircelo a dire…

Poi è rieploso un caso Cattelan. Invitato a fare una mostra dal Comune, anticipando la grande rassegna che gli dedicherà il Moma, ha incontrato sulla sua strada le pruderie del sindaco Moratti (esemplare di quella bella borghesia di cui sopra, che quando non è addormentata si lascia prendere dall’isteria). Ora, se inviti Cattelan, sai che qualche rischio te lo prendi. Confinarlo al Pac e impedirgli di esporre la mano che fa le fiche davanti al palazzo della Borsa mi sembra un’idiozia. Cattelan, furbo di tre cotte, annunciando a Francesca Bonazzoli la notizia del veto e la sua conseguente rinuncia a fare la mostra, ha detto che se Milano fosse stata governata da Bossi non avrebbe incontrato resistenze (del resto immagino che la sua mano in marmo di Carrara, a cui sono state tagliate tutte le ditea, tolto il medio sia sgtata ispirata da quella celebre foto di Bossi; se non ve la ricordate eccola qui si sotto). «Sono convinto che se ci fosse stato Bossi come sindaco non solo avrebbe accettato la statua della mano, ma l’ avrebbe voluta in permanenza perché è una statua che, collocata proprio di fronte al palazzo della Borsa, alla fine parla della rabbia dei cittadini verso quello che Bossi chiamerebbe il teatrino della finanza». Bisognerebbe portare Cattelan nelle cantine di palazzo Citterio. Probabilmente gli ispirerebbero qualche idea interessante.

Written by giuseppefrangi

Maggio 23, 2010 at 10:42 am

La filatrice di Ceruti: l’energia del bene

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La definitiva donazione ai musei di Brescia di questo capolavoro di Giacomo Ceruti (La filatrice), che faceva parte del ciclo di Padernello, mi ha smosso un pensiero che se ne stava sopito e non adeguatamente messo a fuoco. Che questa tela sia un capolavoro, ci sono pochi dubbi: un quadro che sprigiona una simpatia umana come pochi. Un quadro fatto di niente, com’è fatta di niente la vita della filatrice. Eppure che cuore, che densità affettiva, che positività calma e irriducibile, che senso sano della vita sprigiona questo Ceruti! Inutile “dirne” perché quest’immagine parla con una decisività e con una evidenza che non ha bisogno di nessun supporto interpretativo. Piuttosto la domanda da fare è questa: su che cosa poggia un capolavoro come questo? Che tipo di struttura intellettuale lo ha generato? Perché la spontaneità non basta a spiegare, non basta dire che Ceruti era un pittore di natura “buona”. Ecco perciò il concetto che volevo mettere a fuoco: questo quadro è generato dall’energia del bene. È una categoria a cui non si dà mai dignità culturale.  Che si relega alla sfera dei comportamenti. Invece il bene è anche una categoria intellettuale, che quindi genera forme e immagini, che determina una coerente visione del mondo. Questo quadro di Ceruti è una quintessenza di questo senso del bene. Ma non è certo un quadro che si tira indietro, che accetta di farsi da parte nel segno di una docilità malintesa. Direi che la sua bellezza sta in una potenza mai prevaricante, eppure certamente in azione. Una potenza che ha nella travolgente persuasività la sua forza.

Il paragone immediato è a quel capolavoro assoluto che sono i Promessi sposi: li ho appena riletti e non ho finito di contare quante volte ritorna la parola “bene” tra quelle pagine. Ma vi dico che siamo vicini alle 500 occorrenze! Il bene come struttura del mondo, come motore della conoscenza, come energia generatrice dei rapporti che reggono la quotidianità. Forse  sarebbe l’ora di sdoganarlo…

Written by giuseppefrangi

Maggio 10, 2010 at 10:59 PM

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Caravaggio non ci sta più nello scaffale

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Ho contato tra gli scaffali nella mia libreria. E ho scoperto di avere 42 libri su Caravaggio (solo Picasso lo batte con 51). Dovessi tenermi aggiornate con quel che sta uscendo dovrei uscire di casa e aprire un mutuo… Ma sinceramente non ce n’è bisogno. Basta sfogliare i volumoni in libreria per capire che si tratta sempre di ricicciamenti delle cose che si sanno. Le nuove uscite non sono mia il frutto di ricerche, ma alambiccamenti di operazioni editoriali. Oltrettutto non sono neppure buone la campagne fotografiche (il volume di Electa, di Francesca Cappelletti – 90 euro – ad esempio ha immagini magnifiche che si alternano a cadute di qualità scandalose, tipo la Resurrezione di Lazzaro). Tutti si piccano di dare chiavi ermeneutiche sulla pittura e sul personaggio. Ma sono in genere interpretazioni che lasciano tutti il tempo che trovano. Francamente l’ultimo libro che mi sia capitato tra le mani nel quale abbia trovato cose che non si sapevano è quello di Cristina Terzaghi dedicato al rapporto tra C. e i Costa («Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa», 2007) . Lì troverete ad esempio tutta la ricostruzione del caso che portò alla realizzazione della Giuditta (con il nesso straordinario con il dramma di Beatrice Cenci e il ritrovamento del corpo di santa Cecilia: Roma, 1598). Certo nel panorama di chi lavora e indaga su Caravaggio si sente il vuoto lasciato da un personaggio come Luigi Spezzaferro.

Per cui a chi mi chiede suggerimento su cosa leggere, Longhi a parte, raccomando l’utile e precisa biografia di Helen Langdon uscita nel 2002 da Sellerio. Sono 490 pagine a 24 euro. Ho molto attinto da questo libro poco spocchioso per realizzare una biografia di Caravaggio fatta per gli amici di 30Giorni. Leggete qui se volete…

Written by giuseppefrangi

Maggio 8, 2010 at 3:01 PM

1 maggio, da Pellizza sino a Jeff Koons

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Giustamente tempo fa l’amico Flaviano Zandonai dal suo Blog lamentava il fatto che quando  un giornale pubblica un articolo di riflessione sul tema del lavoro il corredo iconografico sia sempre il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Non è possibile che l’arte in oltre un secolo non abbia sviluppato un’altra immagine del lavoro efficace ed emblematica quando quella? Il lavoro rappresentato da Pellizza sembra aver poco a che vedere con la realtà del lavoro di oggi.

Qualche esempio in realtà c’è. Ma è sparuto. Ho in mente le opere di Fernand Leger, prima metà del 900, con i suoi operai costruttori: un inno un po’ sognante alle “magnifiche sorti e progressive”. Ma nessuno, a mia conoscenza, che abbia sviluppato un’immagine capace di diventare “simbolo” della stagione del lavoro flessibile e immateriale.

È come se questo lavoro non avesse più una sua immagine, una sua energia identitaria, ma fosse una specie di buco nero nella coscienza collettiva. Più che per una sua presenza, il lavoro parla in assenza. Ho in mente le stupende foto di Gabriele Basilico, tra le Milano delle fabbriche dismesse. Monumenti di una stagione eroica, di una cultura industriale con tante contraddizioni dentro ma una grande energia umana che le aveva fatte essere.

Oggi il lavoro è anonimo, è muto, senza un volto. E l’arte che non ha il coraggio di entrare nel merito di questa sfida, rischia di ridursi a essere la ciliegina su una società pensata e modellata come un grande parco giochi.

In una recente intervista a Jeff Koons, uno dei più ricercati e quotati artisti viventi, si può trovare una ragione di questa disatnza tra l’arte e il lavoro. Koons spiegava, con grande sincerità, come è organizzata la produzione delle sue opere: «Il lavoro artistico è il gesto, l’idea. Creo le immagini delle mie opere al computer e i miei assistenti le realizzano al mio posto. Vengono create delle mappe molto elaborate e preparati i colori in modo che non debbano prendere nessuna decisione: sono la mia estensione». Il lavoro ormai è una dimensione eterea e immateriale. È un’idea non un azione. È uno stato e non un agire.

PS. Come immagine del lavoro ho una preferenza assoluta e forse poco moderna. Ma credo che commuova chiunque. È il San Giuseppe falegname di Georges De La Tour. La fatica di Giuseppe è una fatica lieta. Gesù ragazzino gli fa luce in una complementarietà che racchiude tutta la bellezza della vita. (anche il “lavoro” di Jeff Koons avrebbe bisogno di una presenza così…)

Written by giuseppefrangi

aprile 30, 2010 at 3:47 PM

Il Paradiso di Giuseppe Panza

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Giuseppe Panza di Biumo, morto ieri a 87 anni, era un uomo pacifico: non c’è bisogno di averlo conosciuto per capirlo. Basta guardare le opere che raccoglieva. Se c’è un filo conduttore che lega le migliaia di quadri della sua collezione nella sua vita probabilmente è quello di un’arte in cerca di armonie più profonde con la vita. L’arte per Panza era risonanza di un assoluto, eco di un equilibrio che andasse oltre la drammatica dialettica della storia. Tra gli antichi amava Beato Angelico ed è una preferenza molto coerente. Gli autori con cui ha rempito partei ed ambienti della magnifica villa di Biumo, si muovono tutti su registri con spostamenti infinitesimali. Monocromi che vibrano di differenze impercettibili, quadri o installazioni che hanno il suono misterioso del silenzio. Che sono incorporei come i pensieri.

Certamente nella testa e nel cuore di Panza queste erano immagini riflesse di un paradiso; echi di un bello che oggi dovrebbe sperimentare nella sua pienezza. In realtà mi permetto di fargli un altro augurio: di aver scoperto oggi che il Paradiso è molto meglio, che non è un vuoto ma un pieno. Che la purezza non è un’assenza ma una presenza. Soprattutto che il Paradiso è pieno di quei corpi (lassù redenti) che per coerenza con la propria sensibilità e il proprio cuore, ha lasciato sempre fuori dalla porta delle sue straordinarie collezioni.

Qualche numero di Panza: 150 opere al Moca di Los Angeles (tra cui tutti i Rothko e i Rauschenberg); 350 al Guggenheim; 200 al museo Cantonale di Lugano; 60 a Rovereto; 133 più 45 ambienti a Villa Panza.

Written by giuseppefrangi

aprile 25, 2010 at 10:02 PM

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Sull’omosessualità del Caravaggio

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Caravaggio era omosessuale? Una battuta scherzosa di Roberto Maroni, mentre rivendicava al proprio ministero (attraverso il Fondo edifici di culto) la proprietà della chiesa di Santa Maria del Popolo, ha rilanciato la questione: «Caravaggio era gay e lumbard», ha detto. Sulla cosa in realtà c’è da discutere. In passato cera stato uno scontro tra Bernard Berenson e Roberto Longhi sulla questione. Berenson, che rera omosessuale, aveva tirato dalla sua parte Caravaggio. Longhi lo aveva strapazzato con un saggetto dal titolo davvero irrispettoso: «Novelletta del Caravaggio “invertito”» (pubblicato su Paragone nel 1952). Erano tempi in cui la cultura di sinistra era rigorista e poco propensa a derive radicali e Longhi ne è piena espressione. Nel saggetto si diverte a demolire una prova sull’omosessualità di Caravaggio (la notizia, molto tardiva, di una sua opera che avrebbe rappresentato 30 uomini «ignudi che si abbracciano lubricamente»). Poi Longhi perfidamente fa capire qual è la questione: che Caravaggio più che essere omosessuale, piace agli omosessuali. Ed elenca gli intellettuali che bussavano alla sua porta per godersi l’immagine del Ragazzo morso dal ramarro. Tra gli altri ricorda Giuseppe Ungaretti (che fece un elegante e anche doloroso outing in una bellissima intervista concessa a Pier Paolo Pasolini: riguardatela).

Oggi il partito negazionista dell’omosessualità ha in Maurizio Calvesi il più ostinato paladino. Ma, premesso che la cosa non è molto importante a capire Caravaggio, bisogna dire che i quadri di più scoperto tenore omosessuale, sono quelli dipinti nei primi anni romani: ma quanto quei soggetti sono indotti dall’esplicita omosessualità del committente (il cardinale Del Monte) e quanto invece “parlano“ delle preferenze di Caravaggio? Con il passare degli anni questi riferimenti in effetti si diradano. E d’altra parte bisogna riconoscere che Caravaggio ha una capacità a volte prorompente nell’interpretare la fisicità femminile: ne sono testimonianza la bellezza a tutto tondo della Madonna dei Pellegrini o di quella dei Palafrenieri.

Ci sarebbe poi da parlare del suo rapporto con le più ambite prostitute romane come quella Fillide Melandroni che posò per la Santa Caterina (Thyssen) e a cui fece un ritratto distrutto sotto le bombe a Berlino (ma il ritratto era destinato all’amante di Fillide, Giulio Strozzi; foto qui sotto). Era quello il tipo di donna che funzionava per Caravaggio; Geronima Giustiniani, che posò come Giuditta e come Maddalena, non era molto diversa.

E se risolvessimo la questione ipotizzando che Caravaggio fosse bisex?

Written by giuseppefrangi

aprile 17, 2010 at 10:10 PM