Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

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Quando si può dire che è una chiesa è bella

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santasabinasbasilicaHa spunti illuminanti il libro di Severino Dianich appena uscito La Chiesa e le sue chiese (nonostante una copertina di grafica un po’ di saporre clericale). Si spiega ad esempio quale sia l’origine dello “spazio chiesa”. Che non è affatto uno spazio per il sacro ma uno spazio per uomini che si radunano, nel nome di un qualcosa che è sacro. Tant’è vero che a differenza dalle altre grandi religioni che tra pagode, moschee e sinagoghe si inventano ambienti a misura del sacro, la chiesa sin dall’inizio usa un impianto già esistente: la basilica romana che era luogo civile e non certo un tempio. Che alla basilica sia stato aggiunto poi un transetto dandole così la forma di una croce è evoluzione morfologica che non cambia quella sostanza iniziale. La chiesa è luogo dove gli uomini si radunano, alle volte con qualche libertà in eccesso, com’era accaduto al Duomo milanese, divenuto una sorta di galleria commerciale ante litteram, sinché san Carlo non rimise tutti in riga chiudendo una delle due porte del transetto e impedendo che la cattedrale fosse luogo di transito e di mercato.

Altro spunto illuminante è quello che riguarda gli architetti moderni alle prese con la committenza ecclesiastica. Tutti dimenticano quel punto di partenza e si fanno invece prendere dal trip di creare lo spazio sacro, con risultati che tutti legittimamente aborriamo. Nascono le chiese – grermbo, le chiese anfiteatro per lo “spettacolo” della messa, e così via. Solo Le Corbusier si accorge del grande equivoco e per questo ha tanta resistenza a mettersi nell’impresa. Alla fine anche lui cede, con risultati esteticamente magnifici (Ronchamp e La Turette), ma ultimamente pur sempre equivoci.

La chiarezza con cui Dianich imposta la questione mi induce a elaborare una classifica delle chiese italiane per me più belle. Dove per “belle” s’intende lo star dentro quell’idea giusta. Eccola dunque, ovviamente sfacciatamente personale.

1. Santa Sabina, Roma

2. San Lorenzo, Milano

3. Sant’Apollinare in Classe, Ravenna

4. Santa Maria del Fiore, Firenze

5. Sant’Ambrogio, Milano

6. Santa Maria Maggiore, Roma

7. San Pietro, Tuscania

8. Duomo, Siracusa

9. Sant’Andrea al Quirinale, Roma

10. San Filippo Neri, Torino

Due nota bene.

Sono escluse meravigliose chiese a pianta centrale (San Tomé, Santa Maria delle Carceri a Prato, la grande chiesa di Todi, Santo Stefano Rotondo), per i criteri di cui sopra. Entra San Lorenzo di Milano, perché pur a pianta centrale è aula quanto mai laica. E poi perché Krautheimer scrisse essere la più bella chiesa del mondo. Secondo, ho guradato agli interni e non agli esterni. Sennò avrei messi una fila di chiese del barocco piemontese e del romanico pugliese.

Written by giuseppefrangi

marzo 7, 2009 at 8:02 am

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Le Corbusier, Matisse e la testimonianza del vero

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le-corbu2Nico, Riccardo, Cristina e Luca hanno portato da Vence un piccolo gioiello: è la lettera che Le Corbusier scrisse a Matisse nel 1953 dopo aver visitato la cappella di Vence. È una lettera piena di stupore e di gratitudine. Eccone una trascrizione (con qualche parola d’incerta interpretazione):

«Caro Matisse, sono andato a vedere la cappella di Vence. Tutto è gioia e limpidezza e giovinezza. I visitatori, per uno slancio sponetaneo, sono rapiti e affascinati. La vostra opera mi ha dato uno slancio di coraggio – non che me ne manchi – ma ho riempito le mie otri. Questa piccola cappella è una grande testimonianza: quella del vero.
Grazie a voi, una volta di più, la vita è bella. Grazie. A voi il mio ricordo più amichevole.
Le Corbusier».

Colpisce come le biografie di due giganti del 900 s’incrocino in questo luogo piccolo, nato quasi per una coincidenza fortuita («Questa cappella non sono io  che l’ho voluta, è venuta da altrove, de plus haut que moi»). Un luogo che non ha nessuna pretenziosità né culturale, né spirituale. Come dice sempre Matisse di questa cappella, è «un fiore»: «Un giorno sono entrato a Nôtre Dame e sono rimasto impressionato dalla folla, dai canti, dalla solennità. E mi sono detto: in confronto cos’è la mia cappella di Vence? È un fiore.Non è che un fiore. Ma è un fiore» (8 marzo 1952). Come un fiore, è nata da sola: «È curioso: ero guidato non guidavo io. Io non sono che un servitore». Sono meravigliose le riflessioni di Matisse sulla cappella (contenute in Ecrits et propos sur l’art, Hermann). Quando Picasso gli contesta la decisione di fare arte religiosa («Picasso era furioso che io facessi una chiesa»), non si scompone: «Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapete bene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Ha ragione Le Corbusier: la grandezza di Vence è nella sua piccolezza, nella sua semplicità e leggerezza. E fa pensare il fatto che un’intelligenza dall’ambizione colossale come quella di Le Corbusier, si chini sulla bellezza umile e architettonicamente anonima (uno stanzone con i muri squadrati) della cappella di Vence. È una spia del cuore, della tensione vera che lo muoveva.
Ultima riflessione: nel rapporto con l’arte, la chiesa di oggi si barcamena tra ripiegamento sugli stereotipi del passato, sudditanza verso le mode spiritualiste del presente e qualche tentativo di quadratura teologica. Invece deve far pensare come a Vence si sia messa in movimento un’altra dinamica: una grazia che ultimamamente apre soluzioni e esiti imprevisiti. Un fiore. Matisse: «C’è bisogno di un coraggio per l’artista, che deve vedere le cose come le vedesse per la prima volta: bisogna vedere ogni cosa per tutta la vita come quando si era bambini».

matmedal

Written by giuseppefrangi

gennaio 18, 2009 at 2:32 PM

Vastità americane

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Vista in agosto la mostra di James Turrell a Villa Panza a Varese. Tutta costruita per spiegare l’immenso progetto del Roden Crater, presso Flagstaff in Arizona. Dal punto di vista della sensibilità è distante anni luce, perché di uno spiritualismo senza più corpo. Ma alcune ammissioni è giusto farle.

Punto primo. Fa impressione riscontrare come l’arte americana abbia ereditato la vocazione a pensare in grande. In America esplodono le dimensioni, non solo per esibizionismo, ma per un bisogno di “andare oltre“ connaturato all’opera. Ha cominciato Pollock, gli altri sono andati dietro. L’arte non è più un giochino, esorbita, esce dalle misure. Nessuno nel 900 in Europa ha spinto in questa direzione. Eppure nella storia europea l’andare oltre la misura è stata una spinta sempre presente: pensa all’enormità della Sistina, ai metri di tela nera sopra gli ultimi Caravaggio, alla forza centrifuga della scultura di Bernini. Ma anche alle galoppate di Tiepolo… O agli esorbitanti crocifissi di Cimabue. Ora questa eredità sembra tutta americana. Turrell prende un cratere nel desero e ci costruisce nei decenni la sua opera (nella foto Akpha space. Lo skyspace).

Punto secondo. L’arte americana si misura sistematicamente con l’assoluto. Non è di tutti, ma accade con una frequenza che fa impressione. E’ un assoluto disincarnato, senza volto: ma questa è caratteristica americana o è non è invece perché l’uomo ha perso la grammatica dell’assoluto? Non sa più dargi nome e faccia (come del resto aveva detto Péguy)? L’arte americana ci dice che oggi il sacro è aniconico (Dan Flavin alla Chiesa Rossa di Milano). Che chi lo vuole rappresentare cade sistematicamente nell’illustrazione patetica. Le Corbu a La Tourette mette solo uncrocifisso minimo sull’immensa parete bianche. Il resto è solo luce. C’est tout. E Matisse è più evocativo nei papier decoupèe che nella Via Crucis di Saint Paul de Vence.

A proposito. A Londra viene ricomposto il ciclo Seagram di Rothko. Immensità, più assoluto (anche se nero). Ma Rothko in più ha anche il senso (a volte colossale) della struttura. Ha ancora un corpo. Per questo è il più grande.

Written by giuseppefrangi

settembre 16, 2008 at 10:21 PM

Il colossale Le Corbu

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Marsiglia, 20 agosto. L’unité d’habitation di Le Corbusier entra in scena con il passo delle cose colossali. colpiscono le zampe da gigante su cui poggia, i pilotis obliqui e trapezoidali che hanno la solidità dei contrafforti delle cattedrali. Aprono spazi ampi, areati e protetti, sotto l’enorme parallelipedo. Il loro messaggio è univoco e diretto. Il quotidiano merita la loro solennità. Nell’articolazione pratica e sorprendentemente funzionale della sua architettura, Le Corbu riesce sempre a trovare il respiro della grandezza. Una grandezza che non sovrasta le vite semplici destinate a quegli appartamenti. Semmai le celebra. L’unité è la cattedrale dell’uomo quotidiano. Ma una cattedrale spogliata di ogni retorica, perché c’è una sovrapposizione perfetta, nell’intuizione di LC, tra il banale e l’infinito, tra il bisogno e il desiderio.

« Dans cette véritable bataille technique, le véritable enjeu était de ne pas perdre de vue les deux objectifs initiaux : Le premier : fournir dans le silence, la solitude et face au soleil, à l’espace, à la verdure, un logis qui soit le réceptacle parfait d’une famille. Le second : dresser face à la nature du Bon Dieu, sous le ciel et face au soleil, une oeuvre architecturale magistrale, faite de rigueur, de grandeur, de noblesse, de sourire et d’élégance»

Qualche numero: 1600 abitanti, 337 appartamenti di 23 tipi diversi.
137 metri di lunghezza, 24 metri di larghezza, 56 metri di altezza su 18 livelli.

Written by giuseppefrangi

agosto 28, 2008 at 8:25 PM

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Morte allo stile

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Su Casabella 766 una lezione di Le Corbusier 1938.

«E ora, amico, ti prego di tenere aperti gli occhi. Hai gli occhi aperti? Sei stato educato a tenere gli occhi aperti? Li tieni continuamente e utilmente aperti? Che cosa guardi quando esci per una passeggiata? … Ora che mi sono rivolto al tuo senso dell’onestà vorrei inculcare a te come a tutti gli studenti di architettira, l’odio per lo “stilismo da tavolo da disegno” che consiste nel coprire un foglio di carta con immagini attraenti “stili“ o “ordini“ – questa è moda. L’architettura invece è spazio, larghezza, profondità, altezza, volume e circolazione. Architettura è una concezione della mente. La devi concepire nella tua testa ad occhi chiusi. Solo così puoi prendere cisione del tuo progetto».

«Tu non sai nulla degli “ordini“ nè dello “stile 1925” e se ti colgo a disegnare nello “stile 1925″, ti pesto sulle orecchie. Non devi essere uno stilista. Tu articoli, pianifichi – nient’altro».

Written by giuseppefrangi

Maggio 23, 2008 at 9:10 PM

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