Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

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19 marzo, dedicato a tutti i padri

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Oggi san Giuseppe e festa del papà. Le più belle immagini che mi vengono in mente sono tutte religiose, legate a quel grande santo, che è diventato santo restando sempre dietro le quinte. Ma c’è anche un’immagine memorabile e molto laica: è una tela di Van Gogh, si intitola i Primi passi ed è del 1889. Ci sono due motivi per cui questa tela è inscindibilmente legata alla paternità. Il primo è il soggetto: un papà contadino che a braccia aperte attende i primi passi della sua bambina. Il secondo è la storia del quadro: Van Gogh infatti lo dipinge da “figlio” in quanto copia un soggetto di François Millet, pittore fancese della scuola di Barbizon morto nel 1875. È commovente questo suo atteggiamento di mettersi con umiltà sulla scia di un altro artista che sente come proprio padre. Uno da cui attingere, su cui appoggiarsi. Infatti per essere buoni padri, bisogna innanzitutto avere la coscienza di essere figli (non di “essere stati“, ma di “essere sempre” figli).

Oltre a Van Gogh (che non fu mai padre) un’altra grande visione della paternità è nelle pagine, di pochi decenni successivi, di Charles Péguy in Véronique. Ve ne propongo un piccolo estratto:: «C’è solo un avventuriero al mondo, e ciò siu vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia…. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Lui naviga su questa rotta immensamente larga, lui solo non può affatto passare senza che la fatalità si accorga di lui… Gli altri scantonano sempre. Possono permettersi di infilare solo la testa. Lui, lui deve nuotare di spalle, deve risalire tutte le correnti. Deve infilare lespalle, il corpo e tutte le membra. Gli altri scantoneranno sempre. Sono carene leggere, sottili come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico».

Written by giuseppefrangi

marzo 19, 2010 at 2:55 PM

Van Gogh non dipingeva con l’orecchio

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Curiosamente si è riaccesa nell’arco di poche settimane la querelle sull’orecchio (auto)mutilato di Van Gogh. Prima un’ipotesi che mette sul banco degli imputati Paul Gauguin, ora una più intrigante che scova in una lettera al fratello “dipinta” sul tavolo di una Natura morta con tavolo da disegno, pipa, cipolla e cera (al Kröller-Müller di Otterlo) del gennaio 1889, il casus scatenante la scelta autolesionista di VG. Nella lettera VG metterebbe in guardia il fratello dal matrimonio: insomma una scena di gelosia verso la prossima cognata, Johanna Bonger. In realtù sul tavolo c’è una lettera con ben in evidenza il destinatario. L’ipotesi è curiosa e mostra una certa coerenza con le lettere note di VG  sul tema matrimonio del fratello. Ma la rivelazione di Martin Bailey, pubblicata The Art Newspaper, sembra una classica operazione di lancio della mostra che a gennaio si aprirà alla Royal Accademy dedicata alle lettere di VG. Lettere di cui è uscita un’edizione straordinaria che oltre ad essere completa è corredata dalle immagini dei quadri e dei disegni di cui VG parla nelle singole lettere (in sei volumi, in tre edizioni, inglese, francese e olandese).
Sul fattaccio del dicembre 1888, mi resta impressa l’idea lasciatami dalla straordinaria mostra di qualche anno fa ad Amsterdam, tutta dedicata al sodalizio VG- Gauguin. Quel sodalizio di 66 giorni esplose per un approccio radicalmente opposto tra i due sulle questioni chiave del fare artistico. E l’opposizione ha segnato un solco profondo che segna anche buona parte del 900 (realtà vs visione). Quindi quel conflitto, così preciso e così dettagliato, mi sembra ragione più che sufficiente per spiegare il gesto di VG. Detto questo, come scrive in una pagina di un suo racconto Foster Wallace, «non è che VG dipingesse con l’orecchio». Perciò occhio a non dar troppo peso al fattaccio. VG dipingeva con un’altra energia: e ho trovato una buona sintesi in un libretto di John Berger, appena tradotto in italiano e dedicato al Disegno. Scrive Berger, che l’energia di VG è un’energia di amore verso le cose che dipinge. È questo che lo muove e che commuove (commosse ad esempio Francis Bacon, che a Van Gogh ha dedicato una celebre “suite” ispirata a un quadro che per altro non c’è più, l’Autoritratto sulla strada di Tarascona. Un inno alla foga innamorata che muove ogni mattina l’artista verso la propria vocazione).

Written by giuseppefrangi

dicembre 30, 2009 at 11:24 am

Van Gogh, quell’alta nota gialla

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Ci sono pochi artisti capaci di suscitare commozione come Van Gogh. La ragione sta in quella sua capacità di mettersi a nudo, di non cercare mai difese né nella vita né nell’arte. In genere diffido dalle mitologie biografiche che si sovrappongono alle opere, ma nel caso di VG le cose funzionano sempre a meraviglia, le parole delle Lettere sono una chiave insostituibile per guardare i quadri.  Proprio per tutto questo un’altra caratteristica di VG è quella di essere materia di passione più per i non specialisti che per gli storici dell’arte.

Lo conferma il piccolo libro appena uscito, scritto da uno psicoanalista, Massimo Recalcati (Melanconia e creazione in VVG, Boringhieri). La  melanconia di VG secondo Recalcati è una melanconia attiva (lettera a Teo: «Le cose misteriose, la tristezza e la melanconia restano ma l’eterna negazione viene bilanciata dal lavoro positivo che in tal modo tutto considerato, si riesce a fare»). La pratica dell’arte come rimedio alla melanconia;  la pratica dell’arte che gli ridà il sentimento della vita. Il nesso tra arte e vita; quella dimensione di fragilità che si travasa dall’una all’altra (VG parla della propria inadeguatezza anche come pittore); la fedeltà assoluta alla realtà; quel senso di purezza che ne deriva: ecco le componenti che in parte spiegano la commozione.

Recalcati segue VG affidandosi alla categoria lacaniana della Cosa, e sono le pagine più belle del libro: la Cosa per Lacan è «un luogo impossibile da rappresentare e impossibile da avvicinare senza  mettere a rischio la propria vita. La Cosa sfugge alle immagini e al linguaggio pur essendo il loro centro esterno… è il reale che eccede la trama immaginaria e simbolica di ogni discorso, che nessuna operazione è in grado di addomesticare». Il vuoto è il nome della Cosa. Ma è un vuoto che incendia. «VG mira a raggiungere il cuore della Cosa, costeggia il vuoto terrificante della Cosa… La barriera che lo separa dall’assoluto della Cosa non lo protegge ma lo soffoca. Esige di raggiungere il cuore della Cosa». Giustamente Recalcati accosta l’esoperienza di VG a quella di Bacon: «Bordare il luogo incandescente della Cosa… questa prossimità perturbante nei confronti del reale».

Il punto di approdo, il luogo della Cosa, è  l’«alta nota gialla» di cui VG parla nelle lettere a Teo. «Avrei voluto dipingere solo il volto dei santi. Nient’altro» (VG, lettera a Teo 344, citata in chiusura da Recalcati).

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Written by giuseppefrangi

novembre 8, 2009 at 3:36 PM