Robe da chiodi

Perché penso, come ha detto qualcuno, che la storia dell’arte liberi la testa

Archive for luglio 2009

Biennale: quando l’arte ama il presente

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L’editoriale del prossimo numero di Vita. Pensieri positivi dalla Biennale

Al centro del percorso della Biennale veneziana di quest’anno, il curatore Daniel Birnbaum ha voluto fare un colpo di teatro. Nello spazio più grande del magnifico edificio delle Corderie (un capannone ante litteram…) ha chiesto all’artista camerunense Pascal Marthine Tayou di immaginarsi la fisionomia di un villaggio globale. L’idea ci stava, visto che il titolo (molto bello) di questa Biennale è «Fare mondi». Tayou non si è fatto pregare e non ha tenuto a freno la sua immaginazione. Così ci si ritrova in mezzo a un gruppo di capanne africane (foto sopra), tra crocchi di persone che confabulano (realizzate con i materiali più impensati e fantasiosi), mentre il volume assordante di video che proiettano immagini globali, completa la dimensione di spaesamento. Ai margini del villaggio, piloni bianchi in polistirolo, da cui spuntano chiodi arrugginiti, raffigurano crudamente le bruttezze incompiute che la modernità scarica ad ogni latitudine. Prima di uscire si scopre che un’immensa cascata di carta macinata scende a valanga dal soffitto. Non è maleodorante, ma rappresenta l’assedio della discarica. Che Tayou sia un artista di talento lo dimostra il fatto che quando si passa oltre, si è tentati di ritornare sui nostri passi, perché ci è affezionati a quel villaggio, perché in fondo riconosciamo davvero qualcosa di casa nostra.

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Qualche campata più avanti, la Biennale riserva un’altra sorpresa. In uno spazio reso buio, s’accendono e si spengono, come palpitando, decine di lucine. Sono gli elettrodomestici con cui un artista questa volta cinese, Chu Yun, ha popolato quello spazio (foto sopra). Nel buio, all’inizio, l’occhio non li scorge. Poi, man mano che si palesano ti prende quasi un po’ di commozione. In fondo sono strumenti del nostro quotidiano. Dobbiamo a loro un po’ del nostro benessere. E poi parlano un linguaggio universale.

Tutto questo e tanto d’altro accade in una Biennale in cui l’arte gioca le sue carte per farci aprire gli occhi, per stabilire connessioni, per farci amare e apprezzare il mondo in cui viviamo, per quanto complicato sia. È un tentativo generoso, a tratti trascinante, che colpisce perché è privo di risentimenti verso il presente. Semmai prende in contropiede per un’energia lirica innescata nei modi che meno ti aspetti: come quell’artista indiana, Sheela Gowda (foto sotto), che ha composto poeticamente una lunga e altissima parete, appendendo vecchi paraurti cromati con trecce lunghissime di capelli. Potremmo continuare a lungo: ma la raccomandazione è che non vi facciate scappare l’occasione di vedere questa Biennale, che ha preso alla lettera il compito assegnatole: non si limita a fotografare i mondi in cui viviamo (il che sarebbe accademia), ma li spinge avanti. «Fare mondi», appunto. Un input che potrebbe benissimo diventare un programma per tutti noi, a partire da noi che facciamo Vita.
Ps: Tutto questo accade a Venezia, una città che a dispetto di tutte le Cassandre sa essere viva come poche altre città italiane. Una città non scontata, che accetta la sfida complicata di essere crocevia di flussi (i 100mila turisti al giorno), palestra di meticciato culturale, e insieme vetrina per nababbi. Giacché non si vive di sola aria…

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Written by giuseppefrangi

luglio 28, 2009 at 10:47 PM

La preghiera dell’artista

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KleinNella bella recensione alla mostra luganese di Yves Klein (Avvenire, 21 luglio), Maurizio Cecchetti riporta questa preghiera rivolta dall’artista a Santa Rita. Le chiede di intercedere presso «Dio Padre Onnipotente perché mi accordi sempre in nome del Figlio e in nome dello Spirito Santo e della Santa Vergine Maria la grazia di animare le mie opere e che esse divengano sempre più belle… Che tutto ciò che esce dalle mie mani sia bello» (il corsivo è mio: prima ancora della bellezza c’è la vita…). il sinistra, il testo completo come lo si legge in mostra, nella foto che mi ha fatto avere l’amico Luca Fiore: a lui devo anche la bella frase di Basilico che leggete qui a destra))

Aggiungo la parte finale della recensione che ho scritto per il mensile Monsieur alla stessa mostra.

«Klein con il suo Ikb (Yves Klein Blu) ha fatto tutto. Ha realizzato ad esempio le Antropometrie, ottenute appoggiando direttamente il corpo di una modella, prima coperto di colore, su delle grandi tele, davanti agli occhi di spettatori chiamati ad essere testimoni della performance. Quel che a Klein interessava non era la provocatorietà del gesto. Con il suo sguardo ingenuo di bambino perennemente  affascinato dal mondo, cercava di stringere il legame tra la vita e l’arte. Di immettere, quasi di travasare l’energia e la bellezza dei corpi dentro le tele.  Corpi, ovviamente, illuminati dal suo blu.
Per capirne il significato bisogna tornare al significato che questo colore, per tanti secoli rarissimo e più prezioso dell’oro (come racconta un affascinante libro di Michel Pastoureau), ha avuto nella storia della grande pittura. Il blu è il colore dell’infinito e del mistero. Di un infinito e di un mistero resi famigliari all’uomo, tant’è vero che nella tradizione figurativa cristiana era il colore destinato all’abito della Madonna. Klein non si scosta da questa tradizione, semmai la innova con straordinaria libertà. L’adegua alla mente e all’occhio dell’uomo moderno, laico e secolarizzato ma ugualmente ansioso di trovare risposte al proprio destino. Che ci sia riuscito, ci sono pochi dubbi. A 50 anni di distanza, le sue opere hanno ancora l’effetto di un lampo capace di suggestionare il nostro sguardo e di spalancare orizzonti che davamo tutti per perduti».

Written by giuseppefrangi

luglio 21, 2009 at 2:52 PM

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Una bella Biennale, anche troppo per bene

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In genere quando si visita una Biennale dopo qualche settimana dalla sua inaugurazione ci si trova davanti a installazioni in disordine, video non funzionanti: questa volta, invece, si ha una bella impressione di ordine e di rispetto per i visitatori di “seconda classe”. Ed è una bella impressione. Merito di un curatore, Daniel Birnbaum, che ha allestito una Biennale lineare, attorno a un tema chiaro, evocativo ma anche semplice: Fare Mondi. C’è molta multietnicità, nelle biografie degli artisti, scovati con occhio curioso nei laboratori delle grandi metropoli soprattutto europee e latino americane. I big hanno presenze marginali e lasciano spazio al vocìo del nuovo. È una Biennale piacevole, senza quelle sconvenienze a scopo mediatico cui ci aveva abituato. A volte una Biennale un po’ ovvia per questa insistita intenzionalità di fare un’arte che vuole bene al mondo, un’arte a forte vocazione sociale. Un’arte molto orizzontale, che non vuole imporre o proporre idee o visioni, ma vuole solo aprire gli occhi sul quotidiano, tessere rapporti, costruire coesione. È arte al limite, molto consolatoria. Quasi per bene.

djurbergIn questo la Biennale è comunque molto omogenea e trova la sua sintesi più emblematica nella grande installazione, messa proprio al centro del percorso dell’Arsenale di Pascale Marthine Tayou. Un artista già molto noto nel circuito, nato a Yaoundé, in Camerun, operativo a Bruxelles, che  ha messo in scena una sorta di villaggio tribal-globale, popolato di rumori, di immagini, di capanne, di figure, attraversato dai segni di traffici illeciti, con una discarica alle porte. Ma tutto sommato un villaggio che resta vitale e felice seppure esposto dall’irrompere caotico e devastante della modernità.
Nel percorso c’è una sola presenza che si mette di traverso. È quella di Natalie Djurberg, l’artista svedese che avevamo conosciuto lo scorso anno alla Fondazione Prada di Milano, e che qui ritorna nella sala bassa e senza finestre del Palazzo delle Esposizioni ai Giardini. Già la location sembra quella di una cripta. Per di più lo spazio è stato riempito sino quasi al soffocamento da enormi fiori fantastici modellati in materiali plastici. È una specie di foresta dove la bellezza sembra essere cresciuta esageratamente e assumere un aspetto spaventevole. I filmati completano la sensazione di un mondo che si autodivora. Più che un fare mondi quello della Djurberg è una documentazione di mondi che si disfano. In questo è anomala nel bel percorso della Biennale. Ma in questo ricorda a tutti che l’arte prima o poi deve affondare. Per esempio affondare nello scompaginamento che l’uomo ha fatto del corpo e della natura. La Djurberg ce lo dà come scompaginamento non riparabile. Questo è il suo scandalo.

Written by giuseppefrangi

luglio 20, 2009 at 4:21 PM

Kounellis: Tiziano, l’inizio di tutte le libertà

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In una bellissima intervista per Il Giornale d’arte (a cura di Franco Fanelli) Jannis Kounellis torna sul tema del rapporto tra l’arte contemporanea e la Chiesa. Il filo conduttore del dialogo è la rivendicazione dello spazio della drammaticità dentro l’arte, cosa che minimalismo e concettualismo hanno negato o poco alla volta marginalizzato. «Penso che noi siamo europei e non americani. Penso che per noi europei, che veniamo dall’ombra, la drammaticità faccia parte dell’inizio di di ogni discorso, di ogni opera. Come artista europeo e occidentale non posso non affrontare il dramma che mi unisce alla tradizione… dico che l’artista trae dalla tradizione e dal passato la libertà di rinnovare la forma».
1assunt4La Madonna di Tiziano. «Si deve prendere atto che nella chiesa ci sono due tipi di iconografia: quella cattolica e quella ortodossa…È chiaro che c’è una grande differenza tra una Madonna di bizantina e una Madonna di Tiziano: quest’ultima è “incarnata”, quindi non parte da un’idea platonica che è alla base dell’iconografia bizantina e ortodossa. La Madonna di Tiziano è l’inizio di tutte le libertà e come pittore non puoi non essere attratto da quella Madonna. Rappresenta un’intuizione ideologica, portatrice di una libertà che è dialettica e che mette in crisi la stabilità».
I tagli di Fontana. «Anche il taglio di Fontana è “incarnato”! Io penso che nasce dai tagli inferti al corpo di Cristo: la tela diventa allora una superficie simile alla pelle e il taglio è la ferita in cui San Tommaso mette il dito per verificarne la fisicità».
La comodità delle icone. «Molti oggi sono attratti dalle icone, che come ho detto sono dogmatiche, perché sono più “comode”, non pongono problemi laddove neutralizzano le differnze che esistono nelle proposte di un pittore. Ma la storia dice che tutti coloro che si sono occupati di cristi e di madonne come Giotto, Masaccio, lo stesso Caravaggio, sono riusiciti a proporre cose assolutamente rivoluzionarie: nell’arte occidentale questo ha a che fare con la chiesa in quanto popolo e non con la spiritualità».

(Tre note:
Mi piace che Kounellis si qualifichi “pittore”. La dice lunga su quanto sia ampio e piena di libertà questa categoria.
Mi piace che Kounellis ribadisca senza ambiguità come la vera partita nell’arte di oggi sia quella di prendere di petto questa drammaticità o invece di liquidarla.
Mi piace questa centralità di Tiziano. È un’intuizione che apre orizzonti, che spinge a osare, che esalta la libertà)

Written by giuseppefrangi

luglio 16, 2009 at 7:17 PM

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Divertitevi con Michelangelo

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1. La Cappella Paolina restaurata: scorrete le immagini. Notate lo sguardo furente di Pietro, che si fa un baffo dei suo aguzzini e sembra prendersela con gli inquilini della Cappella (o l’Inquilino?)

2. Al Metropolitan esposta la tavola acquistata dal Kimbell Museum di Fort West. È una copia dall’incisione di Schongauer con le Tentazioni di Sant’Antonio, e riferita da Ascanio Condivi nella sua biografia di Michelangelo, obbediente ai desiderata del maestro. Keith Christiansen, in Nuovi Studi, ha dettagliato le ragioni della sua certezza, riassunte in un’intervista rilasciata a Repubblica ad Anna Ottani Cavina. Intanto anche in questo caso siate curiosi, guardate l’opera (inattesa) dettaglio per dettaglio (le ha messe sul suo sito il Guardian). Condivi raconta che per rappresentare i mostri Michelangelo se ne andava in pescheria: il mostro slla destra ha le squame di pesce, che in Schongauer non ci sono.

Written by giuseppefrangi

luglio 13, 2009 at 10:27 PM

Pietro Toesca, la fotografia come capacità di sguardo

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8861300170A leggere e sfogliare il libro appena uscito Pietro Toesca e la fotografia (Skira, 40euro) si capisce quanto sia decisiva la capacità di sguardo. Toesca è stato uno dei maggiori storici dell’arte italiani. Con lui a Torino si laureò nel 1911 Roberto Longhi. È autore di un libro che Longhi stesso avea definito «il più gran libro apparso in Italia negli ultimi 50 anni». La pittura e la miniatura in Lombardia era uscito sempre in quel 1911 (io l’ho letto nell’edizione Einaudi, copertina grigia. Oggi non è più sul mercato). Toesca è uno dei primi storici ad accorgersi della funzione fondamentale della fotografia, sia a livello didattico (allestiva delle dispense di sole immagini per permettere agli studenti di seguire i suoi corsi: nel libro due serie di quelle immagini sono state affiancate dagli appunti del corso ritrovati negli archivi); sia a livello di ricezione dell’opera. La fotografia non è uno strumento oggettivo e Toesca ne era perfettamente consapevole. Forzando la mano di un fotografo d’eccezione come l’architetto Giuseppe Pagano riesce a farci sobbalzare davanti alla Pietà Palestrina che oggi nessuno assegna più a Michelangelo. È la forza dello zoom, dei tagli delle immagini, delle luci che rendono drammaticamente pulsante la pietra. Le incertezze dell’insieme così vengono sopraffatte dall’energia dei particolari.
Le campagne fotografiche dirette da Toesca sono guidate da una regia precisa e coerente che guidano dentro le immagini: così quelle di Assisi, dove il nome di Giotto sembra balzar fuori a caratteri cubitali nella chiarezza formale e spaziale dei tagli. Oppure quelle del battistero di Castiglione Olona dove Masolino è indagato anche laddove la salsedine sembra mangiarsi tutto; o quelle di Civate che anche editorialmente rappresentarono un capolavoro.
Il tutto è spiegabile solo con quella capacità di sguardo che è di pochi; e che soprattuo pochi sanno fissare e rimbalzare ai nostri sguardi. Da Toesca discende il Piero di Longhi (1926) che sceglie un linguaggio delle immagini sulla stessa falsariga. E, aggiungiamo noi, anche il Testori del Gran Teatro Montano (non per un caso uscito da Feltrinelli, editore popolare, perché la capacità di sguardo ha questo pregio: parla a tutti, non solo agli specialisti).

Domanda: l’immagine usata per la copertina venne scattata da Giraudon negli anni 30. Un’immagine che palna sul capolavorodi Michelangelo senza gonfiarlo di retorica. È un’immagine che aderisce alla pietra, che è un punto di vista ma non falsa l’oggetto, ma te lo fa conoscere, te lo fa “vedere”. Chi sa fotografare oggi così lo Schiavo morente?

Written by giuseppefrangi

luglio 13, 2009 at 9:37 PM

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Che notte con Gaudenzio!

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Serata di rovesci a Varallo. Sul piazzale del Sacro Monte con Valter Malosti a preparare una serata su cui si riverserà la tempesta. La voce riempie lo spazio, che è fatto per essere abitato dal calore degli uomini. L’occasione è l’inaugurazione delle bussole alla cappella della Crocifissione: soluzione un po’ rude, ma efficace per tornare “dentro” quella cappella che resta una delle cose più emozionanti che si possano vedere. L’inginocchiatoio e le tende per stornare i riflessi, restituiscono uno stile di fruizione antico, ma quanto adatto a questo luogo. Un luogo che ti fa palpitare il cuore, con quella giostra di figure a 360 gradi che ti fan sentire subito un amico. È un grande capolavoro inclusivo, questo di Gaudenzio. Fuori si sentono le parole di Testori, che riempiono il piazzale come fossero arrivate esattamente a casa loro: «…storia di carne, storia, intendo di una carne che si fa creta, pur restando carne»; «quest’evento dove, come non mai, l’intridersi, l’identificarsi della materia dell’arte nella materia della vita, e di questa in quella, per uno scambio che ha il calore dell’umano respiro, si fa materia unica e sola».

buonladroneMi chiedevo che cosa avesse la cappella della Crocifissione di diverso da tutte le altre Crocifissioni. E mi sono dato questa risposta: qui dentro respiri la certezza che questo non è l’ultimo atto. Il popolo di Gaudenzio è fatto, fisicamente fatto, della consapevolezza che una festa attende tutti, dopo l’atto tragico. È una persuasione che leggi nei volti, dipinti o scolpiti, e che immediatamente ti conquista. Verrebbe voglia di rileggere la storia di quel popolo contento che al rintocco delle campane sciama per le strade ad aspettare il cardinale Federico nella più bella pagina dei Promessi Sposi. Eppure questa è una Crocifissione…: «il cuore di un uomo che ha perforato ogni estetica con l’onda piena e immensa di una coscienza fattasi amore». Grazie Gaudenzio (e a chi non ci fosse ancora stato raccomando: è uno spettacolo che umanamente non si può perdere: nell’immagine il Buon ladrone – di creta o di carne?).

La serata si chiude in bellezza, con un manipolo di felici coraggiosi, la voce di Valter che riempie di dolcezza la notte tempestosa, le immagini immense che corrono proiettate sul grande muro della cappella della Crocifissione. Si capisce che può essere l’inizio di un bellissimo film…

Written by giuseppefrangi

luglio 6, 2009 at 10:01 PM

Dario Fo, meglio che tu taccia

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Ha fatto bene il vescovo di Assisi Domenico Sorrentino a impedire a Dario Fo di portare in scena davanti alla Basilica di Assisi il suo spettacolo in cui si prende la briga di demolire l’attribuzione a Giotto degli affreschi della Basilica Superiore, già sostenuta da Bruno Zanardi e da Federico Zeri. “Ofelè fa il to mestè”: Dario Fo è un grande guitto, ma la smetta di fare il crociato delle cause più inverosimili, solo per guadagnare in visibilità e passare da martire. Sugli affreschi di Assisi pochi hanno certezze: ma quelle poche certezze credibili portano tutte al nome di Giotto, come documentato dai libri recenti di due studiosi di primissimo piano, Luciano Bellosi e Serena Romano. Portano prove e ragionamenti serrati, che ora con la allegra fanfaronaggine che lo contraddistingue, Fo vorrebbe azzerare. A gloria sua e a danno di altri.

rebecca2Ps: Serena Romano riferisce a Giotto persino i due capolavori delle Storie di Isacco, nel registro alto della navata. Due riquadri che rappresentano un vero “inizio” dell’arte in Italia. È lo scavo nella “forma mentis” dell’artista che porta la Romano alla certezza. Nelle due Storie di Isacco infatti si trovano, in forma di invenzione, tantissimi elementi che Giotto maturo farà “esplodere” negli affreschi di Padova, più di 10 anni dopo. Sono tanti e davvero affascinanti questi elementi di coincidenza profonda. Uno in particolare: quello del “gesto”. Giotto mette spesso un gesto, emotivamente potente, come perno delle sue composizioni. Nelle due Storie sono le mani, icasticamente isolate sul fondo rosso del tendaggio che chiude la stanza di Isacco. Ed è la stessa  potenza semplice e densa che ritroviamo nella mano di Cristo, che si staglia sul blu del cielo nella scena dell’Ingesso a Gerusalemme a Padova; o è la stessa  efficacia fragile e drammatica del braccio del bimbo, sollevato brutalmente nella Strage degli innocenti.

Sono vere scatole spaziali che contengono intuzioni geniali, come quella di Rebecca che si volge di spalle, come scappasse, vergognandosi dell’inganno perpetrato…

Written by giuseppefrangi

luglio 3, 2009 at 7:06 PM

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