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Quel volto di Lourdes, Picasso e Godard
È un piccola storia affascinante quella chi vi propongo e che devo ad un amico che sta sempre all’erta, Marco Dotti. Si torna a parlare di Lourdes per il film che è arrivato in questi giorni nelle sale, ma su Lourdes c’è un episodio che pochi conoscono. Bernadette Soubirous non aveva mai voluto riconoscere somiglianze tra l’immagine della figura (“Aquero”, l’aveva chiamata nelgli interrogatori, che nel dialetto occitano significa “quella là”) che le era apparsa e le Madonne dipinte dai grandi pittori che aveva potuto vedere riprodotte. Nel 1905 monsignor Delannoy, vescovo di Dax, riferì che Bernadette (morta nel 1879) una volta cedette alle richieste di un religioso che le sottopose un album con delle immagini. Sfogliando si fermò sull’icona bizantina di Notre Dame de Cambrai. Una piccola tavola del XIV secolo, probabilmente di origine dalmata, che rappresenta il tipo della Vergine della tenerezza («voilà ce que je trouve le plus ressemblant», avrebbe detto). Ed è proprio negli Annali del santuario francese che si trova traccia di questa testimonianza di monsignor Delannoy.
Ora, si può guardarla e poi cercare di capire quale fosse il tratto che avesse in particolare avesse richiamato Bernadette. Ma la cosa curiosa è che questo “identikit” ha suscitato l’attenzione di due grandi insospettabili del secolo scorso.
Uno è Picasso , al quale sottopose la cosa André Malraux che così riferisce il dialogo in un articolo pubblicato su Le Figaro Littéraire nel 1974:
«… Le ho detto, la Vergine di Cambrai è un’icona. Ridipinta, ma nessun movimento, nessuna profondità, nessun illusionismo. Il sacro. E Bernardette non aveva mai visto un’icona.
E Picasso prese a riflettere: – Lei ne è sicuro?
– Le lettere del Vescovo sono state pubblicate. E a chi sarebbe servita la menzogna?
– Un intrigo di cubisti!… Veramente vorrei vederla, la sua Vergine…
– Si trova sempre a Cambrai. Le manderò la foto…
– Che la ragazza l’abbia riconosciuta è strano… Ma che i Bizantini l’abbiano inventata, ciò stupisce davvero… – osservò Picasso -. Bisogna riflettere. È interessante. Da dove viene?»
L’altro è Jean-Luc Godard, che fa cadere la questione in modo inatteso e sorprendete in un suo film poco noto ma molto intrigante, girato a Sarajevo nel 2003, Notre Musique. Durante una lezione sulle immagini davanti ad un gruppo di ragazzi, Godard nelle vesti di professore rievoca l’episodio e la sorpresa. Ma l’immagine che mostra è un volto di vergine di un affresco screpolato. E il commento sobrio, con la voce profonda del regista le parole di Malraux: «Nessun movimento, nessuna profondità, niente illusionismo, è il sacro».
Cosa insegna questo episodio? Conferma la potente, travolgente attrazione che porta l’esperienza religiosa a rovesciarsi in immagini. A trovare un riscontro visibile. Sottolineo in particolare la battuta di Picasso: «…ma che i Bizantini l’abbiano inventata stupisce davvero…» (c’è un filo di nostalgia in quelle sue parole; come ammettesse che a lui una simile “fortuna” non era toccata…)
Piccolo ragionamento scandaloso su Francis Bacon
Mi è capitato recentemente di proporre in termini forse poco canonici, un caso Bacon: quest’anno del resto è anche il centenario dalla nascita.
Il punto di partenza è questo: non si deve restare ostaggio di uno sguardo reattivo, che finisce ovviamente con il privilegiare l’aspetto “orrorifico” della sua opera. Il focus drammatico e se si vuole, anche blasfemo, di Bacon esiste. Ma è un errore restarne soggiogati. A dispetto dell’intensità a volte folgorante delle sue tele, Bacon ha bisogno, da parte nostra, di uno sguardo calmo e controllato. Tutto il suo processo creativo obbedisce a una scommessa, a una sfida drammatica più volte ribadita, con molta lucidità, nelle sue interviste: voler andare oltre l’apparenza e approdare «a un più profondo senso dell’immagine». Bacon vuole sfuggire dalla mera illustrazione della realtà, per agganciare un livello più profondo e più «acuto»: acuto nel senso di voler rapportare, nell’immagine, la realtà al suo senso. Per fare questo, il suo primo atto, è quello di agganciarsi a immagini già così forti e strutturate dentro la storia delle arti figurative. Sono immagini che lui percepisce come degli archetipi, come dei punti genetici. Per questo si appoggia all’Innocenzo X di Velazquez e poi alla Crocifissione di Cimabue, che, com’è noto, teneva, nel suo studio rovesciata.
Bacon non è il primo artista del 900 che riscopre l’iconografia della Crocifissione, ma in tanti casi anche celebri, si era trattata di una riscoperta quasi per forza d’inerzia: in un secolo ferito da cicli di inaudita violenza dell’uomo sull’uomo, la Crocifissione è diventata un’immagine simbolo, quasi per necessità: l’unica immagine in grado di dare rappresentazione adeguata di tanta crudeltà. Ma la Crocifissione ridotta a metafora dell’attualità storica e sganciata dal nesso con il destino dell’uomo nella sua integralità, è una Crocifissione depotenziata. E la riprova se ne ha osservando come nessuno, da Nolde a Picasso, abbia saputo fare un salto di coscienza formale affrontando questa immagine cruciale. Per tutti si è trattato semplicemente di un cambiar soggetto, senza muovere ne è forma né stile.
Con Bacon invece avviene un processo opposto (nell’immagine il pannello di destra di Tre studi per una Crocifissione, 1962). La sua Crocifissione (o le sue figure ai piedi della Croce) parte da un punto genetico del passato per esplodere in modo clamoroso nel presente. E in quel punto genetico c’è la parte che mancava al resto del 900: cioè il nesso tra la Crocifissione e il destino dell’uomo. O, più precisamente, con il mistero dell’uomo, cioé quell’inscindibile nodo che lega la bellezza della carne alla sua finitezza ( e la connessa domanda di eterno). La Crocifissione in Bacon cessa di essere metafora e torna ad essere corpo presente. Con tutto lo scandalo che l’uscir di metafora porta con sé. Con Bacon, volenti o nolenti, Cristo torna ad essere un fatto vero, assolutamente e brutalmente reale. Torna a ingombrare la storia dell’arte dopo decenni o forse mezzi secoli di astinenza. Che poi quelle immagini possano risultare sconvenienti da mettere in Chiesa è tutto un altro discorso e anche comprensibile. Però liquidarle dalla coscienza resta uno scandalo.
Per tutto questo sono assolutamente convinto che le Tre figure ai piedi della Croce (19439 con tutte le innovazioni formali che porta sul proscenio della storia dell’arte, siano l’opera cardine del 900.
Le Corbusier, Matisse e la testimonianza del vero
Nico, Riccardo, Cristina e Luca hanno portato da Vence un piccolo gioiello: è la lettera che Le Corbusier scrisse a Matisse nel 1953 dopo aver visitato la cappella di Vence. È una lettera piena di stupore e di gratitudine. Eccone una trascrizione (con qualche parola d’incerta interpretazione):
«Caro Matisse, sono andato a vedere la cappella di Vence. Tutto è gioia e limpidezza e giovinezza. I visitatori, per uno slancio sponetaneo, sono rapiti e affascinati. La vostra opera mi ha dato uno slancio di coraggio – non che me ne manchi – ma ho riempito le mie otri. Questa piccola cappella è una grande testimonianza: quella del vero.
Grazie a voi, una volta di più, la vita è bella. Grazie. A voi il mio ricordo più amichevole.
Le Corbusier».
Colpisce come le biografie di due giganti del 900 s’incrocino in questo luogo piccolo, nato quasi per una coincidenza fortuita («Questa cappella non sono io che l’ho voluta, è venuta da altrove, de plus haut que moi»). Un luogo che non ha nessuna pretenziosità né culturale, né spirituale. Come dice sempre Matisse di questa cappella, è «un fiore»: «Un giorno sono entrato a Nôtre Dame e sono rimasto impressionato dalla folla, dai canti, dalla solennità. E mi sono detto: in confronto cos’è la mia cappella di Vence? È un fiore.Non è che un fiore. Ma è un fiore» (8 marzo 1952). Come un fiore, è nata da sola: «È curioso: ero guidato non guidavo io. Io non sono che un servitore». Sono meravigliose le riflessioni di Matisse sulla cappella (contenute in Ecrits et propos sur l’art, Hermann). Quando Picasso gli contesta la decisione di fare arte religiosa («Picasso era furioso che io facessi una chiesa»), non si scompone: «Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapete bene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Ha ragione Le Corbusier: la grandezza di Vence è nella sua piccolezza, nella sua semplicità e leggerezza. E fa pensare il fatto che un’intelligenza dall’ambizione colossale come quella di Le Corbusier, si chini sulla bellezza umile e architettonicamente anonima (uno stanzone con i muri squadrati) della cappella di Vence. È una spia del cuore, della tensione vera che lo muoveva.
Ultima riflessione: nel rapporto con l’arte, la chiesa di oggi si barcamena tra ripiegamento sugli stereotipi del passato, sudditanza verso le mode spiritualiste del presente e qualche tentativo di quadratura teologica. Invece deve far pensare come a Vence si sia messa in movimento un’altra dinamica: una grazia che ultimamamente apre soluzioni e esiti imprevisiti. Un fiore. Matisse: «C’è bisogno di un coraggio per l’artista, che deve vedere le cose come le vedesse per la prima volta: bisogna vedere ogni cosa per tutta la vita come quando si era bambini».
Le pagelle di Jean Clair
«Tutto dipende dalla qualità. Attualmente a Parigi la mostra di Mantegna è di grande valore, mentre quella su Picasso e i maestri, concepita come un “prodotto” di lusso, come un blockbuster, non porta nessun contributo». Lo dice Jean Clair in un’intervista a Il Giornale. Condivido.