Archive for dicembre 2008
La morte-morte di Bill Viola e la morte-vita di Michelangelo
Note di viaggio romano. Al Palazzo delle Esposizioni, la mostra “estatica” di Bill Viola. Confermo tutte le mie riserve, anzi, se possibile, le incremento. L’apice è nel video Emergence, del 2002, in cui si vedono due donne accasciate ai lati di un sepolcro aperto. Da lì, con lentezza che è la cifra stilistica dell’artista americano, esce il corpo mortalmente bianco di un uomo. Esce facendo strabordare il sepolcro di acqua (tralascio le possibili, e un po’ frustre, interpretazioni simboliche). Le due lo accolgono stupite, ma stabili nel loro dolore. E in effetti l’uomo esce dal sepolcro per andarsi a deporre, morto, nelle loro braccia. Una morte dopo una resurrezione. L’idea più necrofila che un artista potesse immaginare (non accosto i nomi, tanto mi suona davvero blasfema questa messa in scena). Il tutto con una calligrafia di immagini perfette, con ritmo tenuto magistralmente sotto controllo, impaginazione impeccabile.
Ma, come più volte ciascuno ha sperimentato, il Signore è davvero buono. E a poche centinaia di metri dal Palazzo delle Esposizioni, ecco che salta all’occhio il grande manifesto che annuncia l’acquisto da parte dello Stato di un piccolo Crocifisso giovanile di Michelangelo. È alto poco più di 40 centimetri, ed è in legno di tiglio. È un’immagine che pulisce lo sguardo (in senso molto “fisico”): nella sua perfezione trasmette tenerezza. Verrebbe davvero voglia di accarezzarlo, tanto è l’umano che vibra in quella piccola scultura. Se Viola rappresenta un uomo morto nonostante la resurrezione, Michelangelo fa l’opposto: rappresenta un uomo – Cristo – vivo nonostante sia stato ucciso sulla croce. È un Crocifisso in cui la morte già appare come vinta. Un uomo di passione che riesce a sopraffarti con un abbraccio di speranza. Ed è pur così piccolo…
(la foto di Michelangelo, di Aurelio Amendola nel suo bianco e nero un po’ troppo calligrafico non rende l’idea. Meglio quelle a colori sui manifesti).
Giacomelli, il fotografo assorbente
Letto il bellissimo libretto di Mario Giacomelli, La mia vita intera (Bruno Mondadori, 2008). Sono dialoghi raccolti negli ultimi tempi di vita del grande fotografo da Simona Guerra, che ne ha curato l’archivio: un’autobiografia leggera, fragile nei riferimenti cronologici, senza nessuna pedanteria com’è nel personaggio. Giacomelli è soprattutto un uomo innamorato delle cose, della vita, delle persone: un puro, un mite che gioca questi rapporti per cercare la verità di sestesso. Segnalo alcuni passaggi straordinari. (Nella foto Giacomelli con la sua Kobell, obiettivi Zeiss Bessa: ha fotografato tutta la vita con questa macchina).
Pagina 39 (capitolo Prime opere): «Penso che ci siano cose che non si possono capire, ma si può essere come carta assorbente messa sopra una macchia. La macchia è sul tavolo, la carta è neutra e vergine; se ce la metti sopra, quando la alzi vedi che sulla carta c’è il segno della macchia, che però rimane sempre anche sul tavolo… quindi rimane sempre lì, come la macchia, ma io ho appreso qualcosa, come fossi una carta assorbente!».
Pagina 74 (capitolo Vita d’ospizio): «La vecchiaia se ci rifletti è la cosa più grande che esista – la gente non riflette su queste cose -, è così vera, forte, così volgare e dolce contemporaneamente, come il giorno e la notte, come il mare e la felicità. La vecchiaia è completa di tutto, perché ha questa forza cui tu non puoi sottrarti e quindi non c’è nessuno, per quanto grande, che possa dire: “Io sono il Papa e non muoio! Io rappresento Dio sulla Terra!”. Eh no,tu muori come muoiono tutti. Quindi la vecchiaia è la cosa più grande che esista sulla Terra».
Pagina 91 (capitolo Una donna, un uomo, un amore): «A me il realismo interessa da morire, mi piace questa corrente, però la mia realtà è sempre deformata. Il fotografo ha sempre bisogno della realtà, non ne può fare a meno, perché lui fotografa quello che sta di fronte, e quello che sta di fronte, in fondo, è reale (…). il mio realismo è molto poetico, nel senso che trascura, va a discapito di alcune cose (…). A me interssa provare emozioni, saper guatdare dentro di me. Mi interssa capire chi sono, cosa voglio in quel momento di fronte a quella cosa, perché sono lì e non là, o perché voglio questo e non altro».
Michelangelo, la Pietà “atacata insieme”
Visita alla Pietà Rondanini con Lucia e i suoi amici. Colpisce l’esattezza critica con cui il notaio Roberto Ubaldini stila l’inventario il 19 febbraio 1564 dei beni di Michelangelo, il giorno dopo la sua morte, nella casa di Macel de’ Corvi: «Un’altra statua principiata per un Cristo ed un’altra figura di sopra, atacata insieme, sbozzata e non finita». «Un’altra figura di sopra»: in effetti Michelangelo sceglie di posizionare Maria sopra uno zoccolo di pietra rialzato. La scelta è spericolata e insolita, perché “goticizza” la scultura. Ma è proprio questo rialzo che permette a Michelangelo di tendere quella linea curva della schiena di Maria, che è la linea portante di questa scultura (roba da far venire i brividi a Brancusi). Vista dal lato destro si percepisce l’importanza e la bellezza di questo arco tracciato con il marmo. Maria porta e insieme si china. Sorregge e insieme ingloba. Si eleva e insieme scende.
La seconda intuizione critica del notaio è una conseguenza di questa. «Atacata insieme»: le due figure sono come fuse nel marmo, sono un corpo solo. Il punto supermo della Pietà è la condivisione del destino, sembra dire Michelangelo. Non c’è più la separatezza angosciosa della Pietà giovanile di quasi 70 anni prima. La correzione radicale in corso d’opera che Michelangelo realizza, levando la testa del Cristo che cadeva verso sinistra e andandola a ricavare nella spalla destra di Maria, è una vera rivoluzione concettuale. Non è più la Madonna che regge il corpo di Cristo, è la Madonna che si “ataca” al corpo di suo figlio. Quasi lo riprende in grembo. Le gambe perfettamente levigate e tornite, non cadono più a corpo morto, ma sembrano quasi lievitare nell’abbraccio che avviene nella parte alta, incompiuta.
Exit Morandi (in mare aperto)
Nel video che accompagna la bella mostra di Morandi a Varese, è compreso un documento straordinario: è il commiato che Roberto Longhi registrò davanti alle telecamere dell’Approdo il 28 giugno 1964 alla notizia della morte del pittore. Il testo divenne l’editoriale di Paragone (n. 175) e oggi , con il titolo Exit Morandi, chiude il Meridiano che raccoglie i più importanti scritti di Longhi. Ma è un testo abbreviato da cui è stato espunto un passaggio che invece mi ha molto colpito. Il Longhi televisivo in un inciso parla di una grandezza “non gozzaniana” di Morandi. Forse per rispetto a Gozzano ha voluto espungere quel passaggio. Ma quell’inciso è una geniale precisazione di geografia critica. Morandi veniva proiettato su una dimensione internazionale («austero viandante la cui “vox clamantis” raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea»).
Immaginando il Mantegna estremo
La mostra di Mantegna a Parigi si chiude naturalmente con l’ultimo capitolo della parabola del grande Andrea. È un capitolo drammatico, quasi punteggiato di angoscia. C’è tra l’altro uno straordinario risvolto aneddottico: Mantegna aveva scelto la cappella di San Giovanni Battista, nella colossale chiesa mantovana di Sant’Andrea, come luogo della propria sepoltura. Nell’atto di concessione datata 11 agosto 1504 si dà via libera al pittore di recintare all’esterno della cappella una piccola zona di terreno, per ricavarsi uno spazio dove costruirsi una cella e poter meditare vicino a luogo che ne avrebbe accolto le spoglie per il resto dei tempi. Nel contratto si dice che a Mantegna era concesso di coltivare, su quel fazzoletto di terreno, anche un orto. Insomma, lì ci viveva, la tomba diventa già la sua casa: una scelta in cui anche la biografia sembra allinearsi, sintonizzarsi alla grandezza creativa di Mantegna.
Vien da immaginarlo, meditare solitario sul suo declino, sul venire meno delle forze che gli avevano permesso per tutta la vita di tenere teso sino allo spasimo l’arco della propria energia creativa. Ciò che mi affascina di Mantegna è questa sua oltranza espressiva, a volte così determinata feroce da farcelo sentire straordinariamente contemporaneo. È un artista sempre ad altissimo voltaggio mentale: per questo emoziona il pensarlo in quei mesi di rapido declino sentire l’affievolirsi progressivo del segnale creativo, con la mano che trovava dietro di sé input sempre più flebili e offuscati.
Lo straordinario Battesimo per la cappella di San Giovanni Battista nella sua magrezza quasi scheletrica è un quadro fantasma, un lacerto fantastico, con quell’idea del dialogo teso tra Giovanni e Gesù e la figura misteriosa in primo piano con secchiello e corde. La vita sfiancata, vien meno, e intanto il grande Andrea se ne stava lì fuori, nella celletta improvvisata a familiarizzare con il proprio sepolcro.
I tabernacoli di Burri
Per giudicare se una mostra è ben fatta o invece è sciatta basta tener d’occhio alcuni piccoli particolari. Prendete la rassegna che la Triennale ha dedicato a Burri. Gran parte delle opere, provenienti dalla Fondazione di Città di Castello, sono degli ultimi anni. E sono tutti Cellotex, anche nei titoli. Ebbene, vi sfido a trovare anche una sola didascalia in cui si spieghi che cosa sia questo materiale decisivo per il grande maestro umbro.
Intanto rimediamo: il cellotex è un materiale povero, anonimo, di uso industriale: particelle di segatura e colla pressate insieme. Burri vi interviene «spellandone» a tratti la superficie fino a mettere a nudo le fibre, di colore naturale simile alla iuta.
I Cellotex rappresentano un apice di purezza per Burri, perché lo accompagnano verso quella semplificazione estrema cui anelava. Sono supporti e superfici poveri. Ma di una povertà che prepara il campo, con calma, a veri inni di splendore. Il ciclo Nero e oro, da questo punto di vista, parla da solo: quadri, tra i pochi moderni, che non stonerebbero dietro ad un altare. Pezzi di cielo bizantino depositati sulla nuda terra. È un’ascesi francescana quella di Burri, iniziata sui sacchi-saio. E culminata sulla soglia di questi tabernacoli…. Scriveva Emilio Villa: «Burri rende contenuti maestosi con mezzi addirittura trasandati, consunti, acidi… Egli ha il sentore delle materie in disuso… Elabora un’articolata, flessibile, lucida litania». (nell’immagine Nero e oro, 1993)
Qualche domanda cattiva ai curatori: perché far navigare i piccoli multipli nella grande sala centrale del primo piano? Perché nell’ultima sala dello stesso piano, quella con i meravigliosi quadri estremi orizzontali non sono state messe le didascalie? Perché alcune frasi di Burri sono state ripetute più volte (non se ne trovavano altre?)? Perché non osare una mostra sul secondo Burri, dando una fisionomia più sensata e ragionata a questa mostra?
Quella sfida impropria tra Raffaello e Fontana
Due interessanti interviste toccano il tema della natura e del destino dell’arte contemporanea. La prima su Repubblica a Richard Sennett, sociologo, autore di un nuovo saggio su L’uomo artigiano. La seconda a Philippe de Montebello, per 30 anni direttore del Metropolitan di New York (dal Giornale dell’arte).
Domanda: Il suo libro è anche una critica all´arte contemporanea, ormai svincolata dalla materialità?
Richard Sennett: «Anche l´arte, come il lavoro, deve ritrovare il suo rapporto con la fisicità, per non rischiare di essere puramente mentale. Lo sa che i lettori più entusiasti di questo libro sono stati proprio i giovani artisti, che hanno un forte desiderio di riscoprire l´aspetto artigianale del loro lavoro, del tutto trascurato negli ultimi decenni? E forse non è un caso che di recente, ad una mia conferenza su Giorgio Morandi, sono accorse centinaia di persone. Morandi era infatti un vero artigiano».
Domanda: Collezionare arte moderna pone delle sfide…
Philippe de Montebello: «Abbiamo preso la decisione di non comperare troppe opere di questa generazione. Ci sarà molto tempo, se qualcuno si affermerà come artista, per comperare le loro opere nei prossimi 50 anni. I principali musei di arte contemporanea di New York sono le gallerie private».
Pensiero: proprio l’altro giorno visitando alla Pinacoteca Tosio Martinengo un accostamento tra contemporaneo e classico (Capolavori in corso, sino al 1 febbraio), si riscontrava l’enorme fatica che il contemporaneo fa nel confronto con l’antico. È una fatica proprio sul piano mentale, come se l’antico alla fine sbriciolasse il contemporaneo proprio per l’energia della propria struttura concettuale (va detto ad onor del vero che la selezione di opere di Foppa – Moretto – Romanino – Savoldo della Tosio rappresentano uno dei più grandi spettacoli che la storia dell’arte possa mettere in campo). L’amatissimo Fontana (Tagli in rosso) sembra paradossalmente “casuale” rispetto all’esattezza del taglio sul costato di Cristo, dipinto da Raffaello. O il confronto era improprio, o il contemporaneo avrebbe bisogno di non essere ridotto a gioco.
Restiamo tutti appassionatamente contemporanei, senza nessuna nostalgia, ma senza creare idolatrie idiote.