Archive for novembre 24th, 2008
Ramallah al Mint
Che stupore nella sarabanda di una mostra d’antiquariato mixata al contemporaneo (il Mint di Milano) trovarsi davanti a questa foto di Vincenzo Castella, nello stand dello Studio La Città di Verona. Le dimensioni sono minime, 20×20: la foto è stata scattata a Ramallah nel 2007. Il punto di osservazione, come sempre per Castella, è dall’alto. Si vede quella molteplicità di cubi bianchi, disseminati silenziosamente sulla collina, con le mille parabole tese in ascolto. È un’ora di siesta, si direbbe. È tutto nitido, a dispetto del groviglio delle strade e a dispetto delle asprezze della storia. È un microcosmo nitido, con un che di presepiale per quel senso di attesa che pervade aria e muri. Quel che colpisce di Castella è la limpidezza dello sguardo che si deposita minuzioso su ogni angolo, su ogni finestra, senza trascurare niente. Uno sguardo che tocca tutto con una grazia silenziosa e leggera. Sono foto d’architettura le sue, ma con un che di fuggente. Questo è l’attimo; il prossimo non sarà più così esatto e commosso.
Castella, Napoli 1952, è un fotografo appartato. Su internet lo si può vedere all’opera nella campagna fotografica nei Territori, davanti al trespolo e alla sua macchina, con tanto di impermeabile a mantello sulle spalle, che guarda nell’obiettivo come ad attendere l’attimo, anche se davanti in apparenza sembra immobile. Ma l’immobilità è solo un’apparenza. Dice: «Il carattere più strabiliante dell’arte della fotografia è la sua specifica proprietà di captare la totalità delle figure e dei momenti, degli spazi e degli eventi. Sempre e comunque».
Altre foto di Castella sul sito della Galleria.
Il capolavoro cooperativo di Treviglio
Visita guidata da Simone Facchinetti al Polittico di Treviglio, per l’Associazione Testori, sabato 22 novembre.
Una volta nella vita bisogna vederlo il Polittico “cooperativo” di Treviglio (1485 circa). Butinone e Zenale, i due Bernardini, lavorano a quattro mani e oggi per la critica districare le parti di ciascuno è diventato un gioco pressoché irrisolvibile. Cosa ha fatto uno e cosa l’altro? Meglio arrendersi, davanti alla tenuta e al “flusso continuo” dell’insieme. La struttura del Polittico è quella della facciata di un palazzo, con tanto di riminiscenze classiche, come il timpano in alto o i medaglioni monocromi nelle lesene. Che fosse la «più lucida struttura spaziale» della seconda metà del 400 in Lombardia lo aveva già detto Longhi nel 1958: sotto un grande spazio porticato, con tanto di archi in fuga; sopra, al primo piano stanze non alte ma dolcemente sontuose con affaccio a balcone sui devoti (cioè noi). Il prodigio sta nel tenere insieme questa lucidità che sente già di Bramante, con il fragoroso rullare degli ori. È una lucidità che non espugna il sentimento, anzi lo struttura. Il soffitto a cassonetti al primo piano, contro il quale quasi vanno stamparsi le teste dei santi, è una meraviglia di invenzione spaziale, che si afferma sul filo di quegli ori quasi arrembanti. È tutto un doppio passo, quello largo del palazzo nelle sue armonie e nella sua dolce enfasi, e quello stretto dei santi che vanno a occupare tutta l’aria a disposizione.
Poi c’è il particolare – un’idea pre manettiana – dei balconi con le «roste in ferro battuto» (Longhi). Perché lo spazio conserva comunque una persistenza gotica, un che di precipitoso, quasi che i santi, che pure svettano, eleganti e teneri, potessero cadere di sotto.